L’isolamento della sua stanza non tardò a divenirgli caro. Egli assaporò fino in fondo la propria totale indipendenza. Lasciava la stanza soltanto per il pasto del mattino e della sera al refettorio e per una piccola corsa quotidiana per la città, allo scopo di tenersi in allenamento i muscoli abituati all’esercizio; poi ritornava alla Stanza 46 e alla grammatica di iotico. Una volta ogni decade o due, era chiamato per i lavori a rotazione del «decimo giorno» della comunità, ma le persone con cui lavorava erano stranieri, non amici stretti come sarebbero stati in una piccola comunità, cosicché i giorni di lavoro manuale non portavano nessuna interruzione psicologica al suo isolamento né ai suoi progressi nella lingua iotica.

La grammatica stessa, essendo complicata, illogica, e schematizzata, gli dava piacere. Il suo apprendimento proseguì rapidamente quando ebbe accumulato un vocabolario fondamentale, poiché egli conosceva ciò che stava leggendo; conosceva il campo e i termini, e ogni volta che incontrava un ostacolo, o la sua intuizione o un’equazione matematica gli mostravano dove fosse giunto. Spesso si trattava di punti dove non si era mai spinto in precedenza. La Introduzione alla Fisica Temporale di To non era un libro per principianti. Una volta che si fu aperto la strada fino a metà del libro, Shevek non lesse più iotico, ma fisica; e comprese perché Sabul gli avesse fatto leggere i fisici urrasiani prima di ogni altra cosa. Essi erano assai più avanti di quanto si era fatto su Anarres negli ultimi venti o trent’anni. Le più brillanti intuizioni contenute nelle opere di Sabul sulla Sequenza erano in realtà delle traduzioni dallo iotico, non confessate.

Si tuffò negli altri libri che Sabul tirava fuori per lui, le opere più importanti dei fisici urrasiani contemporanei. La sua vita divenne ancor più da eremita. Egli non era attivo nel gruppo studentesco, e non presenziava alle riunioni di altri gruppi o federative, ad eccezione della letargica Federazione dei Fisici. Gli incontri di questi gruppi, veicoli sia di azione sociale, sia di rapporti sociali, erano il tessuto della vita in qualsiasi piccola comunità, ma qui in città parevano meno importanti. Non ci si sentiva indispensabili al loro funzionamento; c’erano sempre degli altri, pronti a fare ciò che doveva essere fatto, e che lo facevano abbastanza bene. Ad eccezione dei lavori del decimo giorno e dei soliti incarichi di pulizia del suo domicilio e dei laboratori, il tempo di Shevek era solamente suo. Egli spesso trascurava gli esercizi fisici, e occasionalmente anche i pasti. Tuttavia non mancò alle lezioni dell’unico corso da lui seguito, le lezioni di Garab sulla Frequenza e il Ciclo.

Garab era abbastanza anziana da perdere spesso il filo e divagare. La frequenza alle sue lezioni era scarsa e assai variabile. Presto s’accorse che il giovanotto magro dalle orecchie grandi era il suo unico costante ascoltatore. Ed ella cominciò a tenere per lui le lezioni. Gli occhi chiari, fissi, intelligenti, del giovanotto si incontravano con i suoi, le davano stabilità, la destavano, ed ella ritornava a brillare, ritrovava la visione perduta. Garab saliva sempre più in alto, e gli altri studenti la fissavano confusi e sorpresi, perfino spaventati, se qualcuno di loro ne aveva l’intelligenza necessaria. Garab scorgeva un universo assai più vasto di quello che la maggioranza delle persone riesce a vedere, e questo universo faceva loro chiudere gli occhi. Il giovanotto dagli occhi chiari la osservava senza battere ciglio. Ed ella gli vedeva nel volto la propria gioia. Ciò che ella offriva, ciò che ella aveva offerto per l’intera sua vita, ciò che nessun altro aveva mai condiviso con lei, egli prendeva, condivideva. Era suo fratello, di là dal golfo di cinquanta anni, ed era la sua redenzione.

Quando si incontravano negli uffici di fisica o nel refettorio, a volte si mettevano direttamente a parlare di fisica, ma altre volte l’energia di Garab non era sufficiente a farlo, e allora trovavano poco da dirsi, poiché la vecchia donna era altrettanto timida quanto il giovane uomo. — Tu non mangi abbastanza — lei gli diceva. Egli sorrideva e le orecchie gli diventavano rosse. Nessuno dei due sapeva cos’altro dire.

Dopo essere stato metà anno all’Istituto, Shevek diede a Sabul una tesi di tre pagine intitolata: «Una critica dell’ipotesi dell’Infinita Sequenza di Atro». Sabul gliela ritornò dopo una decade, brontolando: — Traducila in iotico.

— L’ho già scritta in partenza quasi completamente in iotico — disse Shevek, — poiché usavo la terminolgia di Atro. Copierò l’originale. A che scopo?

— A che scopo? Perché quel maledetto profittatore di Atro possa leggerla! C’è una nave il quinto della prossima decade.

— Una nave?

— Un mercantile di Urras!

Così Shevek scoprì che non soltanto petrolio e mercurio viaggiavano avanti e indietro tra i mondi separati, e non soltanto libri come quelli ch’egli aveva letto, ma anche lettere. Lettere! Lettere a proprietaristi, a sudditi di governi basati sull’iniquità del potere, a individui che erano inevitabilmente sfruttati e sfruttatori, poiché consentivano ad essere elementi della Macchina-Stato. E tali persone scambiavano davvero idee con uomini liberi in maniera non aggressiva, volontaria? Potevano veramente ammettere l’eguaglianza e prendere parte alla solidarietà intellettuale, o cercavano soltanto di dominare, di affermare il proprio potere, di possedere? L’idea di scambiare veramente lettere con un proprietarista lo allarmava, ma sarebbe stato interessante scoprire…

Tante erano le scoperte che erano state forzate in lui nel corso di quel primo mezzo anno ad Abbenay, che egli aveva dovuto ammettere di essere stato — e forse di essere tuttora? — assai ingenuo; ammissione non facile per un giovane intelligente.

La prima, e tuttora la più dura da accettare di queste scoperte era che doveva imparare lo iotico, ma doveva tenere per sé le proprie conoscenze: una situazione così nuova per lui, e così conturbante dal punto di vista morale, che egli non l’aveva ancora analizzata fino in fondo. Evidentemente, il fatto ch’egli non dividesse la propria conoscenza con gli altri non recava loro alcun danno. D’altra parte che danno poteva venire loro dal fatto di sapere ch’egli conosceva lo iotico, e che anch’essi potevano impararlo? Certo la libertà stava piuttosto nell’apertura che nella segretezza, e la libertà valeva sempre il rischio. Comunque, non poteva vedere quale fosse il rischio. Una volta pensò che Sabul desiderasse tenere riservata la nuova fisica urrasiana… possederla, come una proprietà, una fonte di potere sui suoi colleghi di Anarres. Ma questa idea era talmente contraria ai modi di pensare di Shevek che ebbe grande difficoltà a formularsi nella sua mente, e quando si formulò, egli la cancellò immediatamente, con disprezzo, come un pensiero sinceramente disgustoso.

Poi c’era la faccenda della stanza privata, un’altra spina morale. Da bambino, dormire solo in camera singola voleva dire che avevi dato talmente fastidio agli altri del dormitorio che non erano più disposti a sopportarti; avevi egoizzato. Solitudine uguale essere in disgrazia. Da adulti, il principale riferimento per le stanze singole era sessuale. Ciascun domicilio aveva un certo numero di singole, e una coppia che desiderasse copulare usava una di queste singole non occupate per una notte, una decade o finché avesse voluto. Una coppia che si fosse dichiarata compagni prendeva una stanza doppia; in una piccola città in cui non fosse disponibile alcuna camera doppia, spesso se ne costruiva una a un’estremità di un domicilio, e in questo modo, una stanza alla volta, venivano a crearsi strani edifici lunghi, bassi, sinuosi, che venivano chiamati «treni di compagni». A parte l’accoppiamento sessuale, non c’era motivo di non dormire in dormitorio. Potevate sceglierne uno piccolo o uno grande, e se i compagni di camerata non vi piacevano, potevate trasferirvi in un altro dormitorio. Ciascuno aveva la bottega, il laboratorio, lo studio, il capannone o l’ufficio che gli occorreva per il proprio lavoro; si poteva essere riservati quanto si voleva nei bagni; l’isolamento sessuale era liberamente disponibile e socialmente raccomandato; ma al di là di questo, l’isolamento non era funzionale. Era eccesso, spreco. L’economia di Anarres non avrebbe potuto sostenere la costruzione, la manutenzione, il riscaldamento, l’illuminamento di case o appartamenti singoli. Una persona che fosse per natura genuinamente antisociale doveva allontanarsi dalla società e provvedere a se stessa. Ed era completamente libera di farlo. Poteva costruirsi una casa dove preferiva (tuttavia, se avesse rovinato un buon panorama o un lembo di terra fertile, avrebbe rischiato di subire gravi pressioni da parte dei vicini, miranti a farlo traslocare). C’era un buon numero di solitari e di eremiti ai margini delle più vecchie comunità anarresiane: solitari che pretendevano di non far parte di una specie sociale. Ma per coloro che accettavano il privilegio e l’obbligazione della solidarietà umana, l’isolamento aveva valore solamente quando serviva a una qualche funzione.


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