— Pubblicarlo? E dove?

— In iotico, voglio dire… su Urras. Invialo ad Atro, come l’altro, e lui vedrà di farlo pubblicare su una delle riviste locali.

— Non puoi dare loro da pubblicare neppure una parola che non sia stata in precedenza stampata qui.

— Ma con questo libro è successo proprio così. Tutto il materiale del libro, eccetto la mia conclusione, è uscito sulla Rivista di Ieu Eun… prima che il libro venisse pubblicato qui.

— Sì, non ho potuto evitarlo, ma perché credi che mi sia affrettato a far pubblicare il libro? Credi che tutti, al CDP, approvino il fatto che scambiamo idee con Urras in questo modo? La Difesa chiede che ogni parola che lascia Anarres su quelle navi sia controllata da un esperto approvato dal CDP. E inoltre, credi che i fisici provinciali che non riescono ad approfittare di questo canale di comunicazione con Urras approvino il fatto che lo usiamo? Credi che non siano invidiosi? C’è gente che aspetta unicamente che noi facciamo un passo falso. E se noi venissimo scoperti a farlo, perderemmo la cassetta postale sulle navi di Urras. Ti è chiaro il quadro complessivo, ora?

— E come ha potuto, fin dall’inizio, l’Istituto avere quella cassetta postale?

— L’elezione di Pegvur al CDP, dieci anni fa. — Pegvur era un fisico di una certa distinzione. — E io ho sempre proceduto con la massima attenzione per non perderla, da quando c’è. Capisci?

Shevek annuì.

— E poi, Atro non ha voglia di leggere quel tipo di roba. Ho esaminato l’articolo e te l’ho restituito la scorsa decade. Quando ti deciderai a smettere di perdere tempo su quelle teorie reazionarie a cui si abbarbica Garab? Non vedi che ha sprecato tutta la vita su di esse? Se continuerai, riuscirai soltanto a renderti ridicolo. La qual cosa, certo, è un tuo diritto inalienabile. Ma non riuscirai a rendere ridicolo me!

— E se presentassi l’articolo per la pubblicazione qui, in pravico?

— Tempo perso.

Shevek assorbì queste parole con un piccolo cenno del capo. Si rialzò, allampanato e ossuto, e rimase immobile per un attimo, lontano fra i suoi pensieri. La arcigna luce invernale gli lambiva i capelli, ch’egli adesso portava raccolti sulla nuca, a coda, e il viso immobile. Si recò alla scrivania e prese una copia dalla piccola fila dei nuovi libri. — Mi piacerebbe mandare uno di questi a Mitis — disse.

— Prendine quanti ne vuoi. Ascolta. Se pensi di sapere meglio di me ciò che fai, allora presenta quell’articolo alle Edizioni. Non hai bisogno del permesso! Qui non è una sorta di gerarchia, lo sai! Io non posso fermarti. L’unica cosa che posso fare, è darti un consiglio.

— Tu sei il consulente dell’Associazione Edizioni per i manoscritti di fisica — disse Shevek. — Pensavo che fosse un risparmio di tempo per tutti chiedertelo subito.

La sua gentilezza era inflessibile; poiché non intendeva competere per il dominio, egli non era domabile.

— Risparmio di tempo, cosa vuoi dire? — brontolò Sabul, ma anche Sabul era un Odoniano: si torceva come se fosse fisicamente torturato dalla propria ipocrisia; distolse lo sguardo da Shevek, tornò a guardarlo, e disse in tono sprezzante, con la voce spessa di collera: — Fai pure, allora! Presenta quel maledetto articolo! Mi dichiarerò incompetente a dare un giudizio. Dirò loro di chiederlo a Garab. E lei l’esperto di Simultaneità, non io. La mistica elucubratrice! L’universo è una gigantesca corda d’arpa, oscillante dentro e fuori dell’esistenza! E che nota suonerà mai, per inciso? Brani dalle Armonie Numeriche, probabilmente? Il fatto è che io non sono competente… o, in altre parole, non desidero… dare pareri per le Edizioni o per il CDP sugli escrementi intellettuali!

— Il lavoro che ho fatto per te — disse Shevek, — è parte del lavoro che ho svolto seguendo le idee di Garab sulla Simultaneità. Se vuoi l’uno, devi pigliare anche l’altro. Il grano cresce meglio nella merda, come diciamo noi nell’Insediamento Settentrionale.

Rimase fermo ancora un istante, e non ricevendo parole di risposta da Sabul, disse addio e uscì.

Sapeva di avere vinto una battaglia, e facilmente, senza visibile violenza. Ma violenza c’era stata.

Come aveva predetto Mitis, egli era «l’uomo di Sabul». Sabul aveva cessato da anni di essere un fisico funzionante; la sua alta reputazione era costruita sull’espropriazione da altre menti. Shevek doveva fornire le idee, e Sabul ne avrebbe preso il credito.

Ovviamente era una situazione intollerabile sotto l’aspetto etico, che Shevek doveva denunciare e lasciar subito cadere. Solo, Shevek non intendeva farlo. Egli aveva bisogno di Sabul. Egli intendeva pubblicare ciò che scriveva, e mandarlo alle persone che potevano capirlo, i fisici urrasiani; aveva bisogno delle loro idee, dei loro commenti, della loro collaborazione.

E dunque avevano contrattato, egli e Sabul: contrattato come profittatori. Non era stata una battaglia, ma una vendita. Tu mi dai questo e io ti do quello. Tu lo rifiuti a me, e io lo rifiuto a te. D’accordo? D’accordo! La carriera di Shevek, come l’esistenza della sua società, dipendeva dalla continuazione di un fondamentale, inconfessato, contratto di profitto. Non una relazione di aiuto reciproco e di solidarietà, ma una relazione di sfruttamento; non organica, ma meccanica. Può la vera funzione nascere dalla fondamentale disfunzione?

Ma io desidero solamente che il lavoro sia svolto, si giustificava Shevek nella propria mente, mentre percorreva il viale, diretto al quadrangolo domiciliare nel pomeriggio grigio e ventoso. È il mio dovere, è la mia gioia, è lo scopo di tutta la mia vita. L’uomo con cui devo lavorare è competitivo, cercatore di dominio, profittatore, ma io non posso cambiare questo stato di cose; se voglio lavorare, devo lavorare con lui.

Pensò a Mitis e al suo avvertimento. Pensò all’Istituto dell’Insediamento Settentrionale e alla festicciola della sera precedente la sua partenza. Gli pareva, ora, che fosse passato molto tempo, e che fosse un luogo così infantilmente tranquillo e sicuro che per poco non pianse per la nostalgia. Mentre passava sotto l’arco dell’Edificio delle Scienze Vitali, una ragazza girò la testa a guardarlo, ed egli pensò che assomigliava alla ragazza — come si chiamava? — dai capelli corti, quella che aveva mangiato tante frittelle la sera della partenza. Si fermò e si voltò, ma la ragazza era già scomparsa dietro l’angolo. E, comunque, aveva i capelli lunghi. Andato: tutto se n’era andato. Uscì dal riparo del portico e s’immerse nel vento. Nel vento c’era una pioggia fine, rada. La pioggia era sempre rada, quando c’era. Quel pianeta era un pianeta asciutto. Asciutto, pallido, ostile. «Ostile!» disse forte Shevek, in iotico. Non aveva mai sentito parlare la lingua; aveva un suono assai strano. La pioggia gli colpiva la faccia come ghiaia. Era una pioggia ostile. Alla gola dolente si era aggiunto un terribile mal di capo, di cui si accorgeva solamente ora. Entrò nella Stanza 46 e si stese sulla predella del letto, che gli parve assai più bassa del solito. Tremava, e non poteva smettere di tremare. Si coprì con la coperta arancione e si rannicchiò tutto, cercando di dormire, ma non riuscì a non tremare, perché era sottoposto a un costante bombardamento atomico da tutte le parti, che aumentava con l’aumento della temperatura.

Non era mai stato malato, e non aveva mai conosciuto un fastidio fisico peggiore della stanchezza. Non avendo idea di che cosa fosse una febbre alta, egli pensò, durante gli intervalli di lucidità di quella lunga notte, che stesse impazzendo. Il timore della follia lo spinse a cercare di nuovo aiuto quando giunse il giorno. Aveva troppa vergogna di se stesso per chiedere aiuto ai vicini di corridoio; si era sentito delirare nella notte. Si trascinò alla clinica locale, a otto isolati di distanza, e le fredde strade illuminate dall’alba gli girarono solennemente intorno. Alla clinica diagnosticarono la sua pazzia con un leggero attacco di polmonite e gli dissero di andare a letto nella Corsia Due. Egli protestò. L’infermiera lo accusò di egoizzare e gli spiegò che se fosse tornato a casa avrebbe recato a un medico il fastidio di andare a visitarlo laggiù e di fornirgli delle cure private. Egli andò in un letto della Corsia Due. Tutte le altre persone della corsia erano dei vecchi. Giunse un’infermiera che gli porse un bicchiere d’acqua e una compressa. — Che cos’è? — chiese Shevek, sospettoso. I suoi denti avevano ripreso a battere.


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