— Antipiretico.

— E sarebbe?

— Porta giù la febbre.

— Non ne ho bisogno.

L’infermiera alzò le spalle. — D’accordo — disse, e se ne andò.

Molti giovani anarresiani pensavano che fosse una vergogna essere malati: un risultato dell’ottima profilassi della loro società, e anche forse una confusione che nasceva dall’uso analogico delle parole «sano» e «malato». A loro, la malattia pareva un crimine, anche se involontario. Cedere all’impulso criminale, compiacerlo prendendo sostanze che lenivano il dolore, era immorale. Si tenevano alla larga da compresse e iniezioni. Con l’arrivo della maturità e della vecchiaia, molti di loro cambiavano idea. Il dolore diveniva più forte della vergogna. L’infermiera diede ai vecchi della Corsia Due le medicine, ed essi scherzarono con lei. Shevek osservò la scena con opaca incomprensione.

Più tardi ci fu un dottore con un ago ipodermico. — Non voglio — disse Shevek. — Piantala di egoizzare — disse il medico. — Girati dall’altra parte. — Shevek obbedì.

Più tardi ancora ci fu una donna con una tazza d’acqua per lui, ma egli tremava talmente che l’acqua si rovesciò, bagnando la coperta. — Lasciami solo — egli disse. — Chi sei? — Lei glielo disse, ma lui non capì. Le disse di andarsene, si sentiva bene. Poi le spiegò perché l’ipotesi ciclica, sebbene improduttiva per se stessa, fosse essenziale per i suoi passi verso una possibile teoria della Simultaneità, fosse una pietra angolare. Egli parlò in parte nella propria lingua e in parte in iotico, e scrisse le formule e le equazioni su una lavagna con un pezzo di gesso, in modo che lei e il resto del gruppo potessero capire, dato che temeva che non capissero la faccenda della pietra angolare. Lei gli toccò la fronte e gli legò i capelli dietro la testa. Le sue mani erano fredde. In tutta la vita non aveva mai sentito nulla di più piacevole che il tocco di quelle mani. Tese la mano per afferrargliela. Lei non c’era, se n’era andata.

Molto tempo più tardi, egli si destò. Poteva respirare. Stava perfettamente bene. Ogni cosa era a posto. Non si sentiva portato a muoversi. Muoversi avrebbe disturbato il momento perfetto, stabile, l’equilibrio del mondo. La luce invernale sul soffitto era bella in modo inesprimibile. Rimase steso a guardarla. I vecchi della corsia ridevano tra loro: vecchie risate secche e scoppiettanti, un suono bellissimo. La donna arrivò e si sedette accanto alla sua branda. Lui la guardò e sorrise.

— Come ti senti?

— Come appena nato. Chi sei?

Anche lei sorrise. — La madre.

— Rinascita. Ma pensavo di ricevere un corpo nuovo, non lo stesso che usavo già.

— Di che cosa al mondo stai parlando?

— Niente al mondo. A Urras. La rinascita fa parte della loro religione.

— Hai ancora la testa leggera. — Gli toccò la fronte. — Non hai febbre. — La sua voce, nel pronunciare queste parole, toccò e colpì qualcosa, molto profondo nell’intimo di Shevek: un luogo buio, un luogo chiuso tra mura, e lì venne respinto e respinto indietro nell’oscurità. Egli guardò la donna e disse con terrore: — Sei Rulag.

— Te l’ho detto. Diverse volte!

Ella assunse un’aria di spigliatezza, perfino di umorismo. Per Shevek invece non era questione di assumere qualcosa. Non aveva la forza di muoversi, ma si ritrasse da lei senza nascondere il timore, come se non si fosse trattato di sua madre, ma della sua morte. Se ella notò quel debole movimento, non diede segno di essersene accorta.

Era una bella donna, dai capelli scuri, con lineamenti fini e ben proporzionati che non mostravano linee dovute all’età, anche se doveva avere più di quarant’anni. Ogni cosa, nella sua persona, era armoniosa e controllata. La sua voce era bassa, piacevole di timbro. — Non sapevo che tu fossi qui ad Abbenay — disse, — né dove fossi; anzi non sapevo neppure se c’eri ancora. Ero nel magazzino delle Edizioni, a guardare tra le nuove pubblicazioni, a scegliere per la bilioteca di Ingegneria, e ho visto un libro di Sabul e Shevek. Sabul lo conoscevo, naturalmente. Ma chi era Shevek? Perché il nome mi suonava così familiare? Ci ho messo almeno un minuto per arrivarci. Strano, no? Ma la cosa non mi pareva ragionevole. Lo Shevek che conoscevo avrebbe avuto soltanto vent’anni, ed era poco probabile che fosse co-autore di trattati di metacosmologia con Sabul. Ma ogni altro Shevek avrebbe dovuto avere meno di vent’anni! … Dunque andai a vedere. Un ragazzo del domicilio mi disse che eri qui… È una clinica in cui manca un mucchio di personale. Non so perché gli addetti non si facciano assegnare una quota più alta di incarichi di lavoro dalla Federazione Medica, oppure non riducano il numero delle accettazioni; alcuni tra infermieri e dottori lavorano otto ore al giorno! Naturalmente ci sono delle persone, nelle arti mediche, che desiderano proprio questo: l’impulso all’autosacrificio. Sfortunatamente, però, non porta al massimo di efficienza… È stato strano trovarti. Non ti avrei mai riconosciuto… Sei sempre in contatto con Palat? Come sta?

— È morto.

— Ah. — Non ci fu pretesa di trauma o di dolore nella voce di Rulag, soltanto una specie di triste assuefazione, una nota tetra. Shevek ne fu commosso: riuscì a vederla, per un momento, come una persona.

— Quand’è morto?

— Otto anni fa.

— Avrà avuto al massimo trentacinque anni.

— C’è stato un terremoto a Piani Ampi. Vivevamo là da cinque anni, era ingegnere edile per la comunità. Il terremoto danneggiò il centro di apprendimento. Egli era con gli altri; cercava di portare fuori alcuni bambini intrappolati nell’interno. Una seconda scossa di terremoto fece crollare tutto l’edificio. Ci furono trentadue morti.

— C’eri anche tu?

— Ero partito per cominciare il mio addestramento all’Istituto Regionale circa dieci giorni prima del terremoto.

Ella rifletté, con il viso liscio e immobile. — Povero Palat. È stato un po’ da lui… morire con altri, un elemento statistico, uno su trentadue…

— La statistica sarebbe stata più alta se non si fosse recato all’interno dell’edificio — disse Shevek.

Lei, allora, lo guardò. Lo sguardo non indicava quali emozioni provasse o non provasse. Ciò che diceva poteva essere spontaneo oppure deliberato, non c’era modo di capirlo. — A te piaceva molto Palat.

Egli non rispose.

— Tu non gli assomigli. Anzi, tu assomigli piuttosto a me, eccetto che nel colore dei capelli. Pensavo che tu assomigliassi a Palat. Lo davo per certo. È strano come la nostra immaginazione dia alcune cose per certe. Egli rimase con te, dunque?

Shevek annuì.

— Fu fortunato — disse Rulag. Non sospirò, ma nella sua voce c’era l’eco di un sospiro.

— Anch’io.

Ci fu una pausa. Rulag sorrise debolmente. — Sì. Avrei potuto mantenere i contatti con voi. Mi biasimi, per non averlo fatto?

— Biasimarti per questo? Non ti ho mai conosciuta.

— No. Io e Palat ti abbiamo tenuto con noi nel domicilio, anche dopo svezzato. Entrambi eravamo d’accordo nel farlo. In quei primi anni il contatto individuale è essenziale; gli psicologi l’hanno dimostrato senza possibilità di dubbio. La piena socializzazione può svilupparsi soltanto da quell’inizio affettivo… Io ero disposta a restare compagni. Ho cercato di far avere a Palat un incarico qui ad Abbenay. Non c’è mai stata un’apertura nel suo tipo di lavoro, ed egli non voleva venire senza un incarico. Aveva i suoi lati ostinati… Dapprima mi scriveva, di tanto in tanto, per dirmi come stavate, poi cessò di scrivere.

— Non importa — disse il giovanotto. Il suo viso, assottigliato dalla malattia, era coperto di goccioline sottilissime di sudore, che facevano parere le guance e la fronte argentee, come oliate.

Cadde di nuovo il silenzio, e Rulag disse con la sua voce controllata, piacevole: — Be’, sì; importava, e importa ancora. Ma Palat era più adatto a stare con te e a farti superare i tuoi anni integrativi. Tendeva a sostenere, era parentale, e io non lo sono. Il lavoro viene per prima cosa, per me. È sempre venuto per primo. Comunque, sono contenta che tu adesso sia qui, Shevek. Forse potrò esserti di qualche utilità, ora. So che Abbenay è un posto scostante, ai primi tempi. Ci si sente sperduti, isolati, privi della semplice solidarietà che si trova nelle città più piccole. Conosco delle persone interessanti, che forse ti piacerebbe incontrare. È gente che ti potrebbe essere utile. Conosco Sabul; ho una certa idea degli ostacoli che hai potuto incontrare, con lui e con l’intero Istituto. Amano giocare a dominare, laggiù. Occorre una certa esperienza per sapere come batterli al loro stesso gioco. In ogni caso, sono lieta che tu sia qui. Mi dà un piacere che non ho mai cercato… una specie di gioia… Ho letto il tuo libro. È tuo, vero? Altrimenti, perché Sabul lo pubblicherebbe come co-autore insieme a uno studente di vent’anni? Il suo argomento è fuori della mia portata. Io sono soltanto un ingegnere. Confesso di essere orgogliosa di te. È strano, no? Irragionevole. Proprietaristico, addirittura. Come se tu fossi qualcosa che mi appartenesse! Ma quando si diventa più vecchi si ha bisogno di certe rassicurazioni che non sono, tutte le volte, completamente razionali. Per andare avanti.


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