Egli vide la sua solitudine. Vide il suo dolore, e se ne offese. Quel dolore lo minacciava. Minacciava la dedizione di suo padre, l’amore chiaro e costante in cui aveva preso radice la sua vita. Che diritto aveva Rulag, che aveva lasciato Palat nel bisogno, di venire nel momento del proprio bisogno al figlio di Palat? Egli non aveva nulla, nulla da dare a lei, o a chiunque altro. — Sarebbe stato meglio — disse, — che tu avessi continuato a pensare anche a me come a un numero di una statistica.

— Ah — disse lei: la debole, abituale, desolata risposta. Distolse gli occhi da lui.

I vecchi all’estremità della corsia la stavano ammirando, facendosi l’un l’altro cenni col capo.

— Suppongo — disse lei, — di avere cercato di avanzare delle pretese su di te. Ma pensavo che tu avresti potuto avanzare delle pretese su di me. Se tu l’avessi voluto.

Egli non disse nulla.

— Noi non siamo, eccetto che dal punto di vista biologico, madre e figlio, naturalmente. — Aveva riacquistato il suo debole sorriso. — Tu non ti ricordi di me, e il bambino che ricordo non è l’uomo di vent’anni. Tutto ciò appartiene al passato, è irrilevante. Ma noi siamo fratello e sorella, qui, ora. Ed è questo ciò che realmente importa, non è vero?

— Non lo so.

Lei rimase seduta senza parlare per un minuto, poi si alzò in piedi. — Tu hai bisogno di riposare. Stavi molto male la prima volta che sono venuta. Dicono che adesso starai perfettamente bene. Non penso che ritornerò.

Egli non parlò. Lei disse: — Addio, Shevek — e, mentre parlava, si volse per andarsene. Egli ebbe una rapida visione o un’immagine da incubo del suo volto, che, mentre parlava, cambiava drasticamente, s’infrangeva, andava a pezzi. Ma doveva essere stata immaginazione. Ella uscì dalla corsia con il passo misurato e aggraziato di una bella donna, ed egli la vide fermarsi a parlare, sorridendo, con l’infermiera, nel corridoio.

Allora lasciò libera di esprimersi la paura che era giunta con lei, il senso della rottura delle promesse, dell’incoerenza del tempo. Non riuscì a fermarsi. Cominciò a piangere, cercando di nascondere il volto dietro lo scudo del proprio braccio, poiché non aveva la forza di voltarsi. Uno dei vecchi, uno dei vecchi malati, si avvicinò a lui, si sedette sulla sponda della branda e gli picchiò con la mano sulla spalla. — Non è niente, fratello. Andrà tutto a posto, fratellino — mormorò. Shevek lo udì e sentì il tocco della mano, ma non ne ricevette conforto. Neppure dal fratello può venire conforto nell’ora cattiva, nel buio ai piedi del muro.

CAPITOLO 5

Shevek pose fine con sollievo alla propria carriera di turista. Il nuovo anno accademico si apriva, a Ieu Eun; ora poteva stabilirsi per vivere, e per lavorare, in Paradiso, invece di limitarsi a guardarlo dall’esterno.

Si incaricò di due seminari e di un corso aperto di lezioni. Nessuna attività di insegnamento gli era richiesta, ma egli aveva chiesto di insegnare, e gli amministratori gli avevano organizzato i seminari. Il corso aperto non era stato idea sua, né loro. Era venuta una delegazione di studenti e gli aveva chiesto di tenerlo. Egli aveva accettato subito: era uno dei modi in cui si organizzavano i corsi nei centri di apprendimento di Anarres: o per iniziativa degli insegnanti, o degli studenti e degli insegnanti insieme. Quando seppe che gli amministratori erano rimasti scossi dalla cosa, egli rise. — Si aspettano che gli studenti non siano anarchici? — disse. — E che altro possono essere i giovani? Quando sei al fondo, devi organizzarti per portarti su! — Non aveva intenzione di farsi allontanare da un corso per ragioni degli amministratori (aveva già combattuto in precedenza lo stesso tipo di battaglia) e poiché egli comunicò agli studenti la propria fermezza, anch’essi tennero duro. Allo scopo di evitare una pubblicità negativa, i Rettori dell’Università rinunciarono e Shevek iniziò il suo corso con un’aula piena, duemila persone. Ma la frequenza diminuì subito. Egli si attenne alla fisica, senza mai passare al caso personale o alla politica, e si trattava di fisica di livello molto avanzato. Eppure alcune centinaia di studenti continuarono a venire. Alcuni venivano per pura curiosità, allo scopo di vedere l’uomo giunto dalla Luna; altri erano attirati dalla personalità di Shevek, dai barlumi dell’uomo e del libertario che riuscivano a cogliere nelle sue parole anche se non riuscivano a seguire i suoi passaggi matematici. E un numero sorprendentemente alto di studenti era capace di seguire sia la filosofia, sia la matematica.

Erano superbamente addestrati, quegli studenti. La loro mente era fine, acuta, pronta. Quando non lavoravano, riposavano. Non venivano resi ottusi e distratti da una decina di altri impegni. Non cadevano mai addormentati in aula perché erano stanchi dopo avere prestato servizio nei lavori a rotazione, il giorno precedente. La loro società li manteneva in assoluta libertà dal bisogno, dalla distrazione e dalle preoccupazioni.

Quel che erano liberi di fare, tuttavia, era un altro discorso. Pareva a Shevek che la loro libertà da altri impegni fosse esattamente proporzionale alla loro mancanza di libertà d’iniziativa.

Egli rimase stupefatto del loro sistema di esami, quando gli venne spiegato; gli pareva che il procedimento di ficcarsi in testa informazioni per rigettarle a richiesta dovesse essere quanto di più efficace per disamorare il naturale desiderio di imparare che ciascuno porta in sé. Dapprima rifiutò di fare esami e di dare voti, ma ciò sconvolse talmente gli amministratori dell’Università che, non volendo essere scortese con i suoi ospiti, egli rinunciò. Chiese ai suoi studenti di scrivere una tesina sull’argomento della fisica che più li interessava, e comunicò che avrebbe dato a ciascuno il voto più alto, in modo che i burocrati avessero qualcosa da scrivere sui loro moduli e sui loro elenchi. Con sua grande sorpresa, molti studenti vennero da lui a lamentarsene. Desideravano che fosse lui a stabilire i problemi, a rivolgere le domande giuste; essi non volevano pensare alle domande, ma soltanto scrivere le risposte che avevano imparato. E alcuni di loro erano fortemente contrari al fatto che desse a tutti lo stesso voto. Come si poteva distinguere gli studenti diligenti da quelli che non avevano studiato nulla? A che scopo lavorare tanto? Se non c’erano delle classifiche competitive, tanto valeva non fare nulla.

— Certo, naturalmente — disse Shevek, preoccupato. — Se non volete fare il lavoro, allora non dovete farlo.

Se ne andarono via insoddisfatti, ma cortesi. Erano dei piacevoli giovani, con modi franchi e civili. Le letture di Shevek sulla storia urrasiana l’avevano portato alla convinzione che in realtà fossero, anche se la parola era caduta in disuso, degli aristocratici. All’epoca feudale l’aristocrazia aveva mandato i propri figli all’università, conferendo superiorità all’istituzione. Oggi avveniva l’inverso: l’università conferiva superiorità all’uomo. Con orgoglio, dissero a Shevek che la competizione per le borse di studio di Ieu Eun diventava ogni anno più severa, così dimostrando la sostanziale democraticità dell’istituzione. Egli rispose: — Avete messo un ulteriore lucchetto alla porta, e lo avete chiamato democrazia. — Amava i suoi cortesi, intelligenti studenti, ma non sentiva molto trasporto verso nessuno di loro. Progettavano di far carriera come scienziati accademici o industriali, e ciò che apprendevano da lui costituiva per loro soltanto un mezzo per ottenere tale fine, per ottenere il successo nella propria carriera. Essi avevano già, o ne negavano l’importanza, ogni altra cosa ch’egli avrebbe potuto offrire loro.

Shevek si trovò, pertanto, senza altre occupazioni che la preparazione dei suoi tre corsi; il resto del tempo era completamente suo. Non si era mai trovato in una situazione simile da quando aveva vent’anni o poco più, nei suoi primi anni all’Istituto di Abbenay. Dopo quell’epoca, la sua vita sociale e personale era diventata sempre più complicata ed esigente. Egli era stato non soltanto un fisico, ma anche un compagno, un padre, un Odoniano, e infine un riformatore sociale. E in quanto tale non era stato protetto, né si era aspettato protezione, dalle cure e dalle responsabilità che gli toccavano. Non era stato libero da alcuna cosa: era stato soltanto libero di fare ogni cosa. Qui avveniva l’inverso. Come tutti gli altri studenti e i professori, egli non aveva altro da fare che il suo lavoro intellettuale: nulla, letteralmente nulla, del resto. I letti venivano rifatti per loro, le stanze venivano spazzate per loro, ogni lavoro relativo alla loro permanenza veniva svolto da altri, veniva loro resa agevole la strada. E niente moglie, niente famiglia. Nessuna donna. Gli studenti dell’Università non avevano il permesso di sposarsi. I professori sposati di solito abitavano nei cinque giorni di lezione della settimana in appartamenti per scapoli, nell’area accademica, e andavano a casa soltanto per il fine settimana. Nulla che potesse distrarre. Completa tranquillità per lavorare; tutto il materiale a portata di mano; stimoli intellettuali, discussioni, conversazioni quanto si voleva; nessuna pressione. Il vero paradiso! Ma egli non pareva capace di mettersi al lavoro.


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