— Che cosa?

— Oh, lei lo sa, Chifoilisk — disse Shevek con voce bassa, in tono diffidente. — Lei lo sa, cosa vogliono da me.

— Sì, lo so, ma non credevo che lo sapesse lei — disse il thuviano, parlando anch’egli a voce bassa; la sua voce roca divenne un mormorio ancora più roco, tutto respiro e fricative. — Ci è arrivato, allora… la Teoria Generale Temporale?

Shevek lo fissò, forse con una punta di ironia.

Chifoilisk insistette: — Esiste già in forma scritta?

Shevek continuò a fissarlo per un lungo istante, e poi rispose direttamente alla domanda: — No.

— Ottimamente!

— Perché?

— Perché se esistesse, l’avrebbero già presa.

— Cosa intende dire?

— Esattamente ciò che ho detto. Senta, non è stata proprio Odo a dire che dove c’è proprietà c’è furto?

— «Per fare un ladro, fai un padrone; per creare un crimine, crea delle leggi.» L’organismo sociale.

— Bene. Dove ci sono degli scritti in una camera chiusa a chiave, là ci sono delle persone con le chiavi della serratura!

Shevek fece una smorfia. — Sì — disse infine, — è una cosa molto spiacevole.

— Spiacevole per lei. Non per me. Io non ho i suoi scrupoli morali individualistici, lei lo sa. Sapevo già che non ha una copia scritta della Teoria. Se avessi creduto diversamente, avrei fatto qualsiasi sforzo per averla, con la persuasione, con il furto, o con la forza, se avessi pensato di poterla rapire senza entrare in guerra con l’A-Io. Qualsiasi cosa, pur di toglierla a questi grassi capitalisti iotici e di consegnarla al Presidio Centrale del mio paese. Poiché la più alta causa che io possa servire sono la potenza e il bene del mio paese.

— Lei mente — disse Shevek, tranquillo. — Io credo che lei sia un patriota, sì. Ma lei colloca al di sopra del patriottismo il suo rispetto per la verità, la verità scientifica, e forse anche la sua lealtà verso le singole persone. Lei non mi tradirebbe.

— Lo farei, se potessi — disse Chifoilisk, violentemente. Fece per dire qualcosa, s’interruppe, e infine disse, con rabbia e rassegnazione: — La pensi come crede. Io non posso spalancarle gli occhi per lei. Ma, ricordi, noi la desideriamo. Se una volta o l’altra arriverà a vedere cosa succede quaggiù, venga in Thu. Lei ha scelto le persone sbagliate per cercare di farne i suoi fratelli! E se… no, non spetta a me dirlo. Comunque, non conta… se non vuole venire da noi in Thu, almeno non dia la sua Teoria agli iotici. Non dia niente agli usurai! Se ne vada. Torni a casa. Dia al suo popolo ciò che ha da dare!

— Il mio popolo non lo vuole — disse Shevek, senza alcuna particolare inflessione. — Crede che non abbia già provato?

Quattro o cinque giorni più tardi, Shevek, che aveva chiesto di Chifoilisk, venne a sapere che era tornato in Thu.

— Per non più tornare? Non mi aveva detto di essere di partenza.

— Un thuviano non sa mai quando arriverà un ordine del suo Presidio — disse Pae, poiché, naturalmente, era stato Pae a riferirlo a Shevek. — L’unica cosa che sa, è che quando l’ordine arriva è meglio non perdere tempo. E non soffermarsi a prendere commiato per strada. Povero Chifoilisk! Mi chiedo cosa avrà fatto di sbagliato.

Shevek si recò una volta o due a visitare Atro nella sua bella casetta ai bordi dell’area universitaria; Atro vi abitava con un paio di servitori, vecchi quanto lui, che se ne prendevano cura. A quasi ottant’anni, era, come diceva lui stesso, un monumento a un fisico di prima categoria. Anche se non aveva visto finire nell’oblio il suo lavoro, come era successo a Garab, la semplice età gli aveva fatto raggiungere una condizione di disinteresse simile a quella della donna. Il suo interesse per Shevek, almeno, pareva essere completamente personale: una sorta di relazione cameratesca. Egli era stato il primo fisico Sequenziale convertito al modo di Shevek di accostarsi alla comprensione del tempo. Aveva combattuto, con le armi di Shevek, per le teorie di Shevek, contro l’intero corpus della rispettabilità scientifica, e la battaglia era durata per alcuni anni, fino alla pubblicazione di Princìpi della Simultaneità nella stesura integrale, seguita immediatamente dalla vittoria dei Simultaneisti. Quella battaglia era stata il punto culminante della vita di Atro. Egli non sarebbe stato disposto a combattere per qualcosa di meno che la verità, ma era stata la lotta ad essere amata da lui, più che la verità.

Atro poteva far risalire la propria genealogia per undici secoli, tra generali, principi, grandi latifondisti. La famiglia era tuttora proprietaria di un territorio di tremila ettari, con quattordici villaggi, nella provincia di Sie, la zona più rurale dell’A-Io. Egli aveva delle espressioni verbali provinciali, degli arcaismi che conservava con orgoglio. La ricchezza non gli faceva alcuna impressione, ed egli si riferiva al governo del paese dicendo che erano «demagoghi e politici senza spina dorsale». Il suo rispetto non era in vendita. Eppure egli lo dava, liberamente, a qualsiasi sciocco provvisto di quello che egli definiva «il giusto cognome». Per alcuni versi risultava assolutamente incomprensibile a Shevek… un enigma: l’aristocratico. Eppure il suo genuino disprezzo per il denaro e il potere faceva sì che Shevek lo trovasse più vicino a lui di ogni altra persona incontrata su Urras.

Una volta, mentre sedevano insieme nel porticato chiuso da vetrate in cui coltivava ogni tipo di fiori rari e fuori stagione, gli avvenne di usare la frase «noi Cetiani». Shevek la notò e gli chiese: — «Noi Cetiani»… non è una parola dei merli? — «Merli» era una parola del gergo giornalistico per indicare la stampa popolare, i quotidiani, le trasmissioni radio, la narrativa, fabbricati ad uso delle masse lavoratrici urbane.

— «Merli!» — ripeté Atro. — Mio caro amico, dove diavolo vai a pescare questi volgarismi? Con «Cetiani» intendo appunto ciò che gli scrittori dei quotidiani e i loro lettori, gente che muove ancora le labbra quando legge, intendono con questo termine. Urras e Anarres!

— Mi sorprendeva che tu usassi una parola straniera… una parola in-Cetiana, anzi.

— Definizione per esclusione — il vecchio si difese ridendo. — Cento anni fa non avevamo bisogno di questa parola. «Umanità» bastava. Ma le cose sono cambiate, una sessantina di anni fa. Avevo diciassette anni, era una bella giornata di sole all’inizio dell’estate, ricordo ancora perfettamente. Esercitavo il cavallo, e la mia sorella maggiore si sporse dalla finestra per gridare: «Stanno parlando con qualcuno venuto dallo Spazio Interstellare, per radio!». La mia povera cara mamma pensò che fossimo giunti alla fine: diavoli stranieri, capirai. Ma si trattava semplicemente degli Hainiti, che facevano grandi parole sulla pace e la fratellanza. Be’, oggi «umanità» è una parola che copre un campo un po’ troppo vasto. Che cosa definisce la fratellanza se non la non-fratellanza? Definizione per esclusione, mio caro! Noi due siamo parenti. I tuoi antenati probabilmente menavano a brucare le capre nelle montagne mentre i miei opprimevano servi a Sie, alcuni secoli fa; ma siamo membri della stessa famiglia. Per accorgersene, basta solo incontrare… o ascoltare… uno straniero. Un essere di un altro sistema solare. Un uomo, cosiddetto, che non ha nulla in comune con noi ad eccezione della disposizione pratica di due gambe, due braccia e una testa con una specie di cervello dentro!

— Ma gli Hainiti non hanno dimostrato che siamo…

— Tutti di origine straniera, figli dei coloni interstellari Hainiti, mezzo milione di anni fa, o un milione, o due o tre milioni, sì, lo so. «Dimostrato»! Per il Numero Primario, Shevek, mi sembri una matricola al primo esame! Come puoi parlare seriamente di testimonianze storiche, lungo un intervallo di tempo così vasto? Quegli Hainiti lanciano in aria i millenni come se fossero palle di gomma, ma la loro è soltanto l’arte del giocoliere. «Dimostrazione»! Nientemeno. La religione dei miei padri mi informa con uguale autorevolezza che io sono discendente di Pinra Od, che Dio esiliò dal Giardino poiché aveva avuto l’ardire di contarsi le dita delle mani e dei piedi, sommandole fino a venti, e così scatenando il Tempo sull’universo. E io preferisco questa storia a quella degli Hainiti, se devo scegliere!


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