I rivoluzionari Benbili, in gran parte, non erano neppure armati. Le truppe iotiche sarebbero arrivate con cannoni, carri armati, aerei, bombe. Shevek lesse sui giornali la descrizione del loro equipaggiamento e si sentì male allo stomaco.

Si sentiva male ed era incollerito e non aveva nessuno a cui parlare. Pae era fuori discussione. Atro era un ardente militarista. Oiie era un uomo probo, ma le sue insicurezze private, le sue ansie di possidente, lo portavano ad afferrarsi a concetti rigidi di legge e di ordine. Poteva accettare la sua simpatia personale per Shevek soltanto rifiutando di ammettere che Shevek fosse un anarchico. La società Odoniana si definiva anarchica, egli diceva, ma in effetti erano semplicemente dei populisti primitivi il cui ordinamento sociale funzionava senza un visibile governo perché erano pochi e perché non avevano altri stati confinanti. Una volta che la loro proprietà fosse minacciata da un rivale aggressivo, essi si sarebbero dovuti svegliare, e riconoscere la realtà, o sarebbero stati spazzati via. I ribelli del Benbili si stavano accorgendo proprio ora della realtà: stavano scoprendo che la libertà non vale niente se non si hanno dei cannoni per appoggiarla. Egli spiegò queste cose a Shevek nell’unica discussione che ebbero sull’argomento. Non aveva importanza chi governasse, o pensasse di governare, il Benbili: la politica della realtà riguardava la lotta di potere tra l’A-Io e il Thu.

— La politica della realtà — ripeté Shevek. Guardò Oiie e disse: — Ecco una curiosa frase, sulle labbra di un fisico.

— Niente affatto. Tanto il fisico quanto il politico trattano le cose che sono, con delle forze reali: con le leggi fondamentali del mondo.

— Lei mette le sue basse miserabili «leggi» per proteggere la ricchezza, le sue «forze» di cannoni e di bombe, nella stessa frase con la legge dell’entropia e la forza di gravità? Avevo un’idea assai più alta della sua mente, Demaere!

Oiie si ritirò da quella folgore di disprezzo. Non disse altro, e Shevek non disse altro, ma Oiie non dimenticò mai l’accaduto. Rimase fissato nella sua mente, da quel giorno in poi, come il momento più vergognoso della sua vita. Perché se Shevek l’illuso e semplicistico utopista l’aveva messo a tacere così facilmente, la cosa era vergognosa; ma se Shevek il fisico e l’uomo che egli non poteva fare a meno di amare, ammirare, a tal punto ch’egli ambiva di guadagnarsene il rispetto, come se fosse, chissà come, un grado di rispetto più appetibile di quello che si poteva comunemente trovare da altre parti, se questo secondo Shevek lo disprezzava, allora la vergogna era intollerabile, ed egli doveva nasconderla, chiuderla a chiave per il resto della propria vita nella stanza più buia della propria anima.

L’argomento della rivoluzione nel Benbili aveva reso più acuti certi problemi per Shevek: soprattutto il problema del proprio silenzio.

Era difficile per lui non fidarsi delle persone con cui viveva. Egli era cresciuto in una cultura che si basava deliberatamente e continuamente sulla solidarietà umana, sull’assistenza reciproca. Per alienato che egli fosse sotto alcuni aspetti da quella cultura, e straniero come egli era per quella di Urras, tuttavia l’abitudine di tutta una vita non si era cancellata: egli partiva dal presupposto che la gente avrebbe aiutato. Si fidava degli altri.

Ma gli avvertimenti di Chifoilisk, che egli aveva cercato di minimizzare, continuavano a ritornare a lui. Le sue stesse percezioni e il suo istinto li rafforzavano. Che gli piacesse o no, doveva imparare la sfiducia. Egli doveva rimanere in silenzio, doveva tenere per se stesso la sua proprietà; doveva conservare il proprio potere contrattuale.

Parlava poco, in quei giorni, e scriveva ancor meno. La sua scrivania era un ammasso di carte insignificanti; ma i suoi pochi appunti di lavoro erano sempre con lui, in una delle sue numerose tasche urrasiane. Non si alzava mai dal calcolatore da tavolo senza cancellarne tutte le memorie.

Egli sapeva di essere molto vicino a raggiungere quella Teoria Generale Temporale che gli iotici desideravano così ardentemente per le loro navi spaziali e il loro prestigio. E sapeva anche di non averla ancora raggiunta, forse di non poterla raggiungere mai. Non aveva mai ammesso chiaramente né la prima cosa né la seconda davanti a un’altra persona.

Prima di lasciare Anarres, egli aveva creduto di avere la teoria in pugno. Aveva le equazioni. Sabul sapeva ch’egli le aveva, e gli aveva offerto la riconciliazione, il riconoscimento, in cambio della possibilità di stamparle e di prendersi parte della gloria. Egli le aveva rifiutate a Sabul, ma non era stato un grande gesto morale. Il gesto morale, dopotutto, sarebbe stato quello di darle alla propria tipografia, al Gruppo dell’Iniziativa, ed egli non aveva fatto neppure quello. Non era completamente sicuro di essere pronto per la pubblicazione. C’era qualcosa che non era perfettamente giusto, qualcosa che richiedeva una piccola rifinitura. E dato ch’egli aveva lavorato per dieci anni sulla teoria, non ci sarebbe stato niente di male nel dedicarle ancora qualche tempo, per renderla perfettamente levigata.

Il piccolo «qualcosa» che non era perfettamente giusto continuò a parergli sempre più sbagliato. Un piccolo errore di ragionamento. Un grosso errore. Una crepa che raggiungeva le fondamenta… La notte prima di lasciare Anarres aveva bruciato ogni sua carta sulla Teoria Generale. Era giunto a Urras con niente. Da mezzo anno, egli, per usare i loro termini, li imbrogliava.

O imbrogliava se stesso?

Era possibile che una teoria generale della temporalità fosse una meta illusoria. Oppure che, pur essendo possibile unificare sotto una teoria generale la Sequenza e la Simultaneità, egli non fosse l’uomo destinato a unificarle. Aveva cercato di farlo per dieci anni, e non c’era riuscito. I matematici e i fisici, atleti dell’intelletto, compiono da giovani i loro grandi lavori. Era più che possibile… era probabile… che egli fosse ormai bruciato, finito.

Era perfettamente consapevole di essersi trovato nello stesso umore abbattuto e di avere avuto gli stessi presagi di insuccesso in tutti i periodi che avevano preceduto i suoi momenti di massima creatività. Scoprì che cercava di incoraggiare se stesso con questa considerazione, e si infuriò per la propria ingenuità. Interpretare l’ordine temporale come ordine di causa era la cosa più stupida che un filosofo temporale potesse fare. Stava già perdendo la propria intelligenza a causa dell’età? Era meglio limitarsi a mettersi al lavoro sul piccolo, ma pratico, compito di rifinire il concetto di intervallo. Sarebbe potuto risultare utile a qualcun altro.

Ma anche in questo, anche nel parlarne con altri fisici, egli si accorgeva di trattenere qualcosa. E anch’essi se ne accorgevano.

Era stufo di trattenere, stufo di non parlare, di non parlare della rivoluzione, di non parlare di fisica, di non parlare di nulla.

Stava attraversando il parco, diretto all’aula di lezione. Gli uccelli cantavano sugli alberi nuovamente ricoperti di foglie. Non li aveva uditi cantare per tutto l’inverno, ma ora essi cantavano, riversavano le dolci note. Rii-tii, cantavano, tii-daa. Questo è mia proprietà-taa, questo è territorio mio-oo, appartiene a me-ee.

Shevek rimase immobile per alcuni istanti sotto gli alberi, ad ascoltare.

Poi lasciò il sentiero, percorse il parco in un’altra direzione, verso la stazione, e prese un treno del mattino per Nio Esseia. Ci doveva essere una porta aperta da qualche parte di quel maledetto pianeta!

Egli pensò, mentre sedeva sul treno, di cercare di uscire dall’A-Io; di recarsi nel Benbili, magari. Ma non esaminò seriamente il pensiero. Avrebbe dovuto viaggiare su una nave o un aeroplano, e l’avrebbero seguito e fermato. L’unico posto in cui poteva sottrarsi alla vista dei suoi ospiti benevoli e protettivi era nella loro stessa grande città, sotto il loro naso.


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