Non era una fuga. Anche se fosse riuscito a uscire dal paese, egli sarebbe stato ugualmente prigioniero, chiuso entro Urras. Non la potevate chiamare fuga, indipendentemente dal nome che gli archisti, con la loro mistica dei confini nazionali, potevano darle. Ma d’improvviso si sentì allegro, come non si era più sentito da giorni, al pensiero che i benevoli e protettivi ospiti potevano temere, per qualche tempo, che egli fosse scappato.

Era il primo giorno veramente mite di primavera. I campi erano verdi, e luccicavano di acque. Sui terreni da pascolo ogni animale da allevamento era accompagnato dal proprio piccolo. Le piccole pecore erano particolarmente affascinanti, rimbalzavano come bianche matasse di elastico, la coda girava e girava. Tutto solo in un recinto, il padre del gregge, ariete, toro o stallone, dal collo possente, se ne stava fermo sulle quattro zampe, potente come una nube di tempesta, carico di generazioni. I gabbiani passavano su polle traboccanti, bianco su azzurro, e nuvole candide illuminavano il cielo turchino. I rami degli alberi da frutta avevano la punta rossa, e alcuni boccioli erano aperti, rosa e bianchi. Osservando dal finestrino del treno, Shevek trovò che il suo umore inquieto e ribelle era pronto a sfidare perfino la bellezza del giorno. Era una bellezza ingiusta. Che cosa avevano fatto, gli urrasiani, per meritarsela? Perché era stata data a loro con tanta prodigalità, con tanta grazia, e ne era stata data così poca, pochissima, al suo popolo?

Sto ragionando come un urrasiano, disse a se stesso. Come un maledetto proprietarista. Come se il merito significasse qualcosa. Come se si potesse guadagnare la bellezza, o la vita! Cercò di non pensare a nulla, di lasciarsi trasportare avanti e di osservare la luce del sole nel cielo gentile e le piccole pecore che rimbalzavano nei campi primaverili.

Nio Esseia, città di cinque milioni di anime, innalzava le sue torri delicate e lucenti al di là delle verdi paludi dell’Estuario, e pareva costruita di nebbia e di luce solare. Quando il treno deviò senza scosse su un lungo viadotto, la città si innalzò più alta, più luminosa, più solida, finché d’improvviso racchiuse completamente il convoglio nella ruggente oscurità di un raccordo sotterraneo, venti binari paralleli, e poi liberò treno e passeggeri negli spazi enormi e brillanti della Stazione Centrale, sotto la cupola di color avorio e turchino che godeva fama di essere la più vasta cupola innalzata su qualsiasi mondo dalla mano dell’uomo.

Shevek vagabondò per quelle migliaia di metri quadrati di marmo levigato, sotto l’immensa volta eterea, e giunse infine al lungo schieramento di porte da cui folle di persone entravano e uscivano continuamente: ogni persona con la propria finalità, ognuna separata dall’altra. Tutte parevano, a lui, ansiose. Egli aveva già visto, spesso, quell’ansia sul volto degli urrasiani, e se ne era chiesto la ragione. Era forse dovuta al fatto che, per quanto denaro avessero, dovevano sempre preoccuparsi di averne di più, per non morire in povertà? O era dovuta alla colpa, poiché, per poco che fosse il denaro da essi posseduto, c’era sempre qualcuno che ne aveva di meno? Qualunque fosse la causa, essa dava a tutti i volti una sorta di identità, ed egli si sentiva molto solo in mezzo a loro. Nello sfuggire alle sue guide e ai suoi guardiani, non aveva considerato cosa si provava trovandosi abbandonati a se stessi in una società in cui gli uomini non si fidavano l’uno dell’altro, in cui il postulato morale fondamentale non era la reciproca assistenza, ma la reciproca aggressione. Si sentiva un po’ spaventato.

Si era vagamente immaginato di andare in giro per la città e di scambiare qualche parola con la gente, con dei membri della classe non possidente, se essa ancora esisteva, o delle classi lavoratrici, come essi si definivano. Ma tutta quella gente gli passava davanti di corsa, per affari, e non desiderava chiacchiere oziose, non desiderava sprecare il proprio tempo prezioso. La loro fretta infettò anche Shevek. Doveva andare da qualche parte, pensò, mentre si affacciava sulla luce solare e sull’affollata magnificenza di Via Moie. Dove? La Biblioteca Nazionale? Lo Zoo? Ma egli non voleva panorami.

Incapace di decidere, si fermò davanti a un negozio, accanto alla stazione, che vendeva giornali e gingilli. I titoli di prima pagina dicevano THU INVIA TRUPPE A SOSTEGNO BENBILI RIBELLI, ma egli non ebbe alcuna reazione. Egli guardava le fotografie a colori nell’espositore, e non i giornali. Gli era venuto in mente di non avere alcun ricordo di Urras. Quando si viaggiava, era bene portare con sé, al ritorno, un ricordo. Gli piacevano quelle fotografie, scene dell’A-Io: le montagne che aveva scalato, i grattacieli di Nio, la cappella dell’Università (era quasi il panorama che vedeva dalla finestra!), una contadina nell’elegante abito della sua provincia, le torri di Rodarre, e quella che aveva colpito immediatamente la sua vista, un piccolo di pecora in un prato fiorito, che zampettava e, a quanto pareva, rideva. La piccola Pilun avrebbe apprezzato quella pecora. Prese una cartolina di ciascun tipo e le portò al banco. — Cinque fa cinquanta e con l’agnellino sessanta; e una piantina, ecco qui, signore, una e quaranta. Bella giornata, la primavera finalmente è arrivata, vero, signore? Non ha niente di più piccolo, signore? — Shevek aveva mostrato una banconota da venti unità monetarie. Pescò in tasca gli spiccioli che aveva ricevuto quando aveva acquistato il biglietto, e, con un piccolo studio delle denominazioni dei biglietti e delle monete, mise insieme una unità e quaranta. — Esatto, signore. Grazie, e le auguro una piacevole giornata!

Il denaro aveva comprato anche la cortesia, oltre che le cartoline e la piantina? Che cortesia avrebbe mostrato il negoziante se egli fosse entrato come entravano gli anarresiani in un distributorio di merci: per prendere ciò che volevano, fare un cenno del capo al contabile e poi uscire?

Inutile, inutile fare questi ragionamenti. Quando sei nel Paese dei Proprietaristi, pensa da proprietarista. Vestiti come lui, mangia come lui, agisci come lui, sii come lui.

Non c’erano parchi nel centro della città di Nio: il terreno era troppo prezioso per sprecarlo in frivolezze. Egli continuò a immergersi sempre più nelle stesse strade larghe e sfavillanti che gli avevano fatto percorrere varie volte. Giunse alla Saemtenevia e la attraversò in fretta, per evitare una ripetizione dell’incubo ad occhi aperti. Giunse così nel distretto commerciale. Banche, uffici, edifici governativi. Era tutta così, Nio Esseia? Grandi scatole lustre di pietra e di vetro, immensi, decorati, enormi pacchetti vuoti, vuoti.

Passando davanti a una vetrina con la scritta «Galleria d’Arte», egli entrò, pensando di poter sfuggire alla claustrofobia morale delle strade e di trovare nuovamente in un museo la bellezza di Urras. Ma tutti i quadri del museo avevano dei cartellini col prezzo incollati alla cornice. Rimase a fissare un nudo dipinto con abilità. Il cartellino diceva 4000 UMI. — Si tratta di un Fei Feite — disse un uomo scuro, comparso al suo fianco senza fare rumore. — La settimana scorsa ne avevamo cinque. La cosa più grossa del mercato artistico, tra poco tempo. Un Feite è un investimento sicuro, signore.

— Quattromila unità è il denaro che occorre per mantenere in vita due famiglie per un anno in questa città — disse Shevek.

L’uomo lo esaminò e disse, strascicando le parole: — Sì, certo, signore, ma quella, lei vede, è un’opera d’arte.

— Arte? Un uomo fa dell’arte perché deve farla. Per quale motivo è stato fatto quel quadro?

— Lei è un artista, vedo — disse l’uomo, ora con chiara insolenza.

— No, sono un uomo che riconosce la merda quando la vede! — Il mercante indietreggiò, allibito. Quando fu uscito dalla portata di Shevek, cominciò a mormorare qualcosa sulla polizia. Shevek sogghignò e uscì dal negozio. Giunto a metà isolato, si fermò. Non poteva andare avanti così.


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