— Di’ qualcosa in iotico — chiese Richat, una studentessa dei corsi di Shevek. — Che effetto fa?

— Lo sai già: Va’ all’inferno! Dannazione!

— Piantala di ingiuriarmi — disse la ragazza, ridacchiando. — Pronuncia una frase completa.

Shevek pronunciò allegramente una frase in iotico. — In realtà non so come si pronunci — aggiunse. — È solo un tentativo.

— E cosa voleva dire?

— Se il passaggio del tempo è un aspetto della coscienza umana, passato e futuro sono funzioni della mente. Da un pre-Sequentista, Keremcho.

— Che strano, pensare a gente che parla senza che si possa capirla!

— Non riescono a capirsi neppure tra loro. Parlano centinaia di lingue diverse, tutti quei pazzi archisti della Luna…

— Acqua, acqua… — disse Bedap, ancora ansante.

— Non c’è acqua — disse Terrus. — Non piove da diciotto decadi. Per essere precisi, 183 giorni. Da quarant’anni non c’era una siccità così lunga ad Abbenay.

— Se continua, dovremo riciclare l’urina, come hanno fatto nell’anno 20. Un bicchiere di piscio, Shevek?

— Non scherzare — disse Terrus. — Camminiamo su un filo. Pioverà a sufficienza? Il raccolto di foglie degli Altipiani del Sud è già perduto. Laggiù non piove da trenta decadi.

Tutti levarono lo sguardo al cielo velato, color dell’oro. Le foglie dentellate degli alberi sotto cui sedevano, alte piante esotiche del Vecchio Pianeta, pendevano polverose dai rami, arricciate dalla siccità.

— Mai più una Grande Siccità — disse Desar. — Moderni impianti desalazione. Evitano.

— Potrebbero contribuire ad alleviarla — disse Terrus.

Quell’anno l’inverno giunse precocemente, freddo e asciutto, nell’emisfero settentrionale. Polvere gelida trasportata dal vento nelle basse, ampie strade di Abbenay. Acqua dei bagni strettamente razionata: sete e fame portavano in seconda posizione la pulizia. Il cibo e i vestiti dei venti milioni di abitanti di Anarres venivano dalle piante di holum, dalle loro foglie, semi, fibre, radici. C’era qualche riserva di tessuti nei magazzini e nei depositi, ma non c’erano mai state grandi riserve di cibo. L’acqua andava alla terra, per tenere vive le piante. Il cielo al di sopra della città era privo di nubi e sarebbe stato chiaro se non fosse stato ingiallito dalla polvere portata dal vento da zone più secche, a sud e ad ovest. A volte, quando il vento soffiava da nord, dai Ne Theras, la caligine gialla si schiariva e lasciava un cielo terso e brillante, di un colore azzurro cupo che s’induriva verso il viola allo zenit.

Takver era gravida. In prevalenza era sonnolenta e benevola. — Io sono un pesce — diceva, — un pesce nell’acqua. Sono all’interno del bambino che è dentro di me. — Ma a volte era sovraccarica di lavoro, o aveva fame a causa della leggera riduzione nella quantità di cibo dei pasti alla mensa. Le donne gravide, al pari dei bambini e dei vecchi, potevano consumare un pasto sovrannumerario al giorno, colazione alle undici, ma spesso Takver la perdeva perché l’orario del suo lavoro non glielo permetteva. Lei poteva perdere un pasto; i pesci delle vasche del suo laboratorio, no. Gli amici spesso le portavano qualcosa che avevano risparmiato dal proprio pasto o che era stato avanzato alla loro mensa, un panino imbottito o un frutto. Ella mangiava ogni cosa con piacere, ma continuava a desiderare dolci, e i dolci erano scarsi. Quando era stanca, era ansiosa e si agitava per un nonnulla; la sua collera si accendeva per una parola.

Verso la fine dell’autunno, Shevek terminò il manoscritto dei Principi della Simultaneità. Lo diede a Sabul per l’approvazione per la stampa. Sabul lo tenne per una decade, due, tre e non disse nulla riguardo ad esso. Shevek gli chiese notizie. Egli rispose che non aveva ancora trovato il tempo di leggerlo, aveva troppo da fare. Shevek attese. Era ormai pieno inverno. Il vento secco soffiava giorno dopo giorno; il terreno era gelato. Ogni cosa pareva giunta a un arresto, un arresto preoccupato, in attesa della pioggia, in attesa della nascita.

La stanza era buia. Le luci si erano appena accese nella città; parevano deboli sotto il cielo grigio, scuro, alto. Takver entrò, accese la lampada, si accoccolò con ancora il soprabito accanto alla grata del calore. — Oh che freddo! Spaventoso. Mi sento i piedi come se avessi camminato su un ghiacciaio, per poco non mi mettevo a piangere per la strada, tanto mi facevano male. Maledetti stivali profittatori! Perché non siamo buoni a fare un paio di stivali decenti? Come mai stai seduto al buio?

— Non so.

— Sei andato alla mensa? Io ho mangiato un boccone mentre tornavo a casa. Ho dovuto fermarmi, le uova di Kukuri si schiudevano, dovevamo togliere i piccoli dalla vasca prima che gli adulti li mangiassero. Hai mangiato?

— No.

— Non fare lo scontroso. Per favore non fare lo scontroso proprio questa sera! Se mi va storta ancora una cosa, mi metto a piangere. Sono stufa di piangere tutto il tempo. Maledetti stupidi ormoni! Vorrei poter avere i bambini come i pesci, deporre le uova, nuotare via, e tutto finisce lì. A meno di nuotare indietro per mangiarli… Non startene seduto come una statua. Non lo sopporto. — Stava già quasi piangendo, accovacciata accanto al soffio di aria calda della grata, mentre cercava di slacciarsi gli stivali con le dita intirizzite. Shevek non disse nulla. — Ma che cosa hai? Non puoi startene lì come un morto!

— Sabul mi ha convocato oggi. Non raccomanderà i Princìpi per la pubblicazione, e neppure per l’esportazione.

Takver smise di lottare con la stringa e si sedette. Guardò Shevek da dietro la spalla. Infine disse: — Che cosa ha detto, esattamente?

— Il commento che ha scritto è sul tavolo.

Takver si alzò, raggiunse il tavolo camminando su uno stivale solo, e lesse il biglietto, piegandosi sul tavolo, con le mani nelle tasche del soprabito.

— «Che la Fisica Sequenziale sia la strada maestra del pensiero cronosofico nella Società Odoniana è un principio mutuamente accettato fin dall’Insediamento d’i Annares. Le divagazioni egoistiche da questa solidarietà di princìpi possono dare come risultato soltanto la sterile tessitura di ipotesi impratiche, prive di utilità sociale organica, oppure la ripetizione delle speculazioni superstizioso-religiose degli scienziati irresponsabili e venduti degli Stati Profittatori di Urras…» Oh, lo sporco profittatore! Il meschino, invidioso, piccolo sputasentenze Odoniane! E manderà questo commento alle Edizioni?

— L’ha già mandato.

Takver si chinò per togliersi lo stivale. Alzò lo sguardo diverse volte in direzione di Shevek, ma non si recò accanto a lui né cercò di toccarlo, e per qualche tempo non disse nulla. Quando infine parlò, la sua voce non era forte e tesa come prima, e riaveva la sua naturale caratteristica robusta, vellutata. — Che cosa conti di fare, Shevek?

— Non c’è niente da fare.

— Stamperemo il libro. Formeremo un gruppo tipografico, impareremo a comporre, lo stamperemo.

— La carta è a razioni minime. Non si stampano cose inessenziali. Solo le pubblicazioni del CDP, finché non saranno salve le piantagioni di holum.

— Allora non puoi cambiare in qualche modo l’esposizione? Camuffare quello che scrivi. Decorarlo con fronzoli Sequenziali. In modo che lo accetti.

— Non puoi camuffare il nero da bianco.

Non gli chiese se fosse possibile aggirare Sabul o scavalcarlo. Nessuno, su Anarres, scavalcava un’altra persona. Non c’erano vie traverse da cui aggirare qualcuno. Se non potevi lavorare in solidarietà con i colleghi, allora lavoravi da solo.

— E se… — Ma subito s’interruppe. Si alzò e portò gli stivali accanto al soffio d’aria calda, ad asciugare. Si tolse il soprabito, andò ad appenderlo, e si mise uno scialle pesante, fatto a mano, sulle spalle. Si sedette sulla predella del letto, brontolando un poco negli ultimi centimetri. Poi alzò lo sguardo su Shevek, seduto di profilo, tra lei e le finestre.


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