— E se gli offrissi di firmare come co-autore? Come il primo articolo che hai scritto.

— Sabul non metterà mai il suo nome su delle «speculazioni superstizioso-religiose».

— Ne sei certo? Sei certo che non sia proprio ciò che desidera? Sabul sa cos’è, sa cos’hai fatto. Hai sempre detto che è astuto. Sa che ficcherà lui e tutta la sua scuola Sequenziale nel secchio della riciclazione. Ma se invece potesse condividere il credito? Tutto ciò che fa, è egoistico. Se potesse dire che è il suo libro…

Shevek disse con rancore: — Preferirei condividere te con lui, che quel libro.

— Non guardare la cosa sotto questo aspetto, Shevek. È il libro, che è importante… le idee. Ascolta. Noi desideriamo tenere con noi il bambino che nascerà, tenerlo fin dai primi giorni, noi vogliamo amarlo. Ma se per qualche ragione la sua permanenza presso di noi lo facesse morire, se potesse vivere soltanto nell’incubatrice, e noi non potessimo mai vederlo e conoscere il suo nome… se dovessimo fare questa scelta, come ci comporteremmo? Lo faremmo morire per tenerlo tra noi, oppure gli daremmo la vita?

— Non so — rispose lui. Appoggiò la testa fra le mani, strofinandosi dolorosamente la fronte. — Sì, certo. Sì. Ma questo… Ma io…

— Fratello, cuore caro — disse Takver. Serrò i pugni, poi li abbassò sul grembo, senza toccare Shevek. — Non ha importanza il nome scritto sul libro. La gente lo saprà ugualmente. La verità è il libro.

— Io sono quel libro — egli disse. Poi serrò le palpebre, e rimase a sedere immobile. Takver si avvicinò a lui, allora, timidamente, toccandolo con la delicatezza con cui avrebbe toccato una ferita.

All’inizio dell’anno 164, la prima versione, incompleta e drasticamente corretta, dei Princìpi della Simultaneità venne stampata ad Abbenay, con Sabul e Shevek come co-autori. Il CDP stampava soltanto documenti e direttive essenziali, ma Sabul aveva influenza alla divisione Stampa e Informazione del CDP e la aveva convinta del valore propagandistico del libro, su Urras. Urras, egli diceva, si rallegrava della siccità e della possibile carestia di Anarres; l’ultimo arrivo di giornali iotici era pieno di maligne profezie sull’imminente collasso dell’economia Odoniana. Quale confutazione migliore, diceva Sabul, che la pubblicazione di un’importante opera di pensiero puro, «un monumento della scienza», scrisse nel nuovo giudizio, «che s’innalza sulle avversità materiali per dimostrare l’insoffocabile vitalità della Società Odoniana e il suo trionfo sul proprietarismo archista in ogni area del pensiero umano».

Così l’opera venne stampata, e quindici delle trecento copie salirono a bordo del mercantile iotico Pensiero. Shevek non aprì mai una copia del libro stampato. Nel pacco per l’esportazione, tuttavia, egli infilò una copia del manoscritto completo, originale, ricopiata a mano. Una nota sulla copertina pregava di darla al dottor Atro del Collegio della Nobile Scienza dell’Università di Ieu Eun, con gli omaggi dell’autore. Era ovvio che Sabul, il quale doveva dare l’approvazione finale al pacco, avrebbe notato l’aggiunta. Se avrebbe tolto il manoscritto o se lo avrebbe lasciato, Shevek non lo sapeva. Sabul poteva confiscarlo per dispetto; oppure poteva lasciarlo, sapendo che l’edizione evirata da lui preparata non avrebbe avuto sui fisici urrasiani l’effetto desiderato. Non disse nulla del manoscritto a Shevek. Shevek non gliene parlò.

Shevek parlò poco con tutti, quella primavera. Prese un assegnamento volontario, lavoro di costruzione in un nuovo impianto di riciclazione dell’acqua, nel sud di Abbenay, e per la maggior parte del giorno fu occupato a insegnare o al nuovo lavoro. Ritornò ai suoi studi nel campo subatomico, e spesso passò la sera all’acceleratore dell’Istituto o nei laboratori con gli specialisti in particelle. Con Takver e gli amici era tranquillo, taciturno, gentile, e freddo.

Takver divenne molto grossa e cominciò a camminare come una persona che trasportasse un cesto di biancheria largo e pesante. Continuò a lavorare al laboratorio dei pesci finché non ebbe trovato e istruito un’adeguata sostituta, poi si recò a casa e le vennero le doglie, con più di dieci giorni di ritardo rispetto alla data prevista. Shevek arrivò a casa a metà del pomeriggio. — Vai a chiamare la levatrice — disse Takver. — Dille che le contrazioni avvengono a quattro o cinque minuti tra loro, ma non accelerano, e quindi non c’è molta fretta.

Ma egli si affrettò, e quando scoprì che la levatrice era uscita, cadde in preda al panico. Tanto la levatrice quanto il medico dell’isolato erano fuori, e nessuno dei due aveva lasciato un avviso sulla porta per dire dove lo si poteva trovare, come era abitudine. Il cuore di Shevek prese a battere all’impazzata, ed egli cominciò bruscamente a vedere le cose con una terribile chiarezza. Vide che questa mancanza di assistenza era un segno infausto. Egli si era ritirato da Takver a partire dall’inverno, a partire dalla decisione sul libro. Takver era stata sempre più tranquilla, passiva, paziente. Ed egli adesso capiva quella passività: era la preparazione della morte. Era stata lei a ritrarsi da lui, ed egli non aveva cercato di seguirla. Egli aveva osservato soltanto la propria amarezza di cuore, e non aveva mai visto la paura di Takver, o il suo coraggio. L’aveva lasciata sola perché voleva essere lasciato solo, ed ella aveva continuato ad allontanarsi, troppo lontano, sarebbe andata avanti da sola, per sempre.

Corse alla clinica dell’isolato, e vi giunse talmente trafelato e incerto sulle gambe che i medici pensarono che gli fosse venuto un attacco cardiaco. Poi spiegò. Essi inviarono una comunicazione a un’altra levatrice e gli dissero di andare a casa, la compagna avrebbe apprezzato la sua presenza. Tornò a casa, e ad ogni passo cresceva in lui il panico, il terrore, la certezza della perdita.

Ma una volta a casa non poté inginocchiarsi davanti a Takver, chiederle perdono, come avrebbe voluto disperatamente. Takver non aveva tempo per le scene emotive; aveva da fare. Aveva tolto ogni cosa dalla predella del letto, ad eccezione di un lenzuolo pulito, e stava dandosi da fare a partorire un figlio. Non urlava né si lamentava, poiché non provava dolore, ma quando una contrazione arrivava, si tratteneva con il controllo del respiro e dei muscoli, e poi lasciava andare un grande uff di respiro, come una persona che compie uno sforzo terribile per sollevare un grande peso. Shevek non aveva mai visto un lavoro che facesse appello come quello a tutta la forza del corpo.

Non poteva osservare un simile lavoro senza cercare di aiutare. Egli poteva servire come appoggio e come aiuto quando Takver doveva fare leva. Trovarono quasi subito la posizione con un paio di prove, e continuarono in quel modo anche dopo l’arrivo della levatrice. Takver partorì in posizione eretta, accovacciata, con la faccia premuta contro la coscia di Shevek, le mani strette alle sue braccia. — Ecco fatto — disse tranquillamente la levatrice, al di sotto dell’ansito pesante, simile a quello di un muratore, del respiro di Takver, e afferrò la creatura scivolosa, ma chiaramente umana, che era apparsa. Seguì un fiotto di sangue, e una massa amorfa di qualcosa che non era umano, che non era vivo. Il terrore dimenticato si riaffacciò nella mente di Shevek, raddoppiato. Era la morte, ciò che vedeva. Takver gli aveva lasciato le braccia e si era rannicchiata ai suoi piedi, esausta. Egli si chinò su di lei, rigido per l’orrore e il rimorso.

— Fatto — disse la levatrice. — Aiutala a spostarsi, in modo che io possa ripulire.

— Voglio lavarmi — disse Takver, debolmente.

— Aiutala, aiutala a lavarsi. Ci sono dei panni sterili… qui.

— Wew wew wew — disse un’altra voce.

La stanza parve piena di persone.

— Adesso — disse la levatrice, — senti, riportale il bambino, al seno, per aiutare a far cessare l’emorragia. Io voglio mettere questa placenta in frigorifero, alla clinica. Torno tra dieci minuti.


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