Non l’avrebbero lasciato partire. Non aveva ancora pagato il prezzo del viaggio. Ed egli stesso non poteva concedersi di andare: di rinunciare, scappare via.

Seduto alla scrivania, avvolto dalla chiara luce del mattino, picchiò le nocche sull’orlo del tavolo nettamente e seccamente, due, tre volte; il suo volto era calmo e pareva pensoso.

— Dove vado? — disse forte.

Un colpo alla porta. Efor entrò con il vassoio della colazione e i giornali del mattino. — Venuto alle sei come sempre, ma ancora dormiva — osservò, posando il vassoio con mirabile destrezza.

— Mi sono ubriacato, ieri sera — disse Shevek.

— Bellissimo finché dura — disse Efor. — Questo è tutto, signore? Bene — e uscì con la stessa destrezza, rivolgendo sulla soglia un inchino a Pae, che era entrato mentre egli usciva.

— Non intendevo piombare nel bel mezzo della colazione! Mentre tornavo dalla cappella, ho pensato di dare un’occhiata.

— Si sieda. Prenda un po’ di cioccolata. — Shevek non sarebbe riuscito a mangiare se Pae non avesse almeno fatto il gesto di mangiare insieme con lui. Pae prese un panino al miele e lo spezzettò su un piattino. Shevek si sentiva ancora un po’ scosso, ma aveva fame, e si dedicò alla colazione con gusto. Pae parve trovare più arduo del normale dare inizio alla conversazione.

— Riceve ancora quella robaccia? — chiese infine, in tono divertito, toccando i giornali ripiegati che Efor aveva messo sulla tavola.

— Li porta Efor.

— Li porta lui?

— Gliel’ho chiesto io — disse Shevek, adocchiando Pae: un’occhiata brevissima, esplorativa. — Aumentano la mia comprensione del vostro paese. Mi interessano le vostre classi inferiori. Quasi tutti gli anarresiani venivano dalle classi inferiori.

— Sì, certo — disse l’altro, con un’aria rispettosa e un cenno d’assenso. Mangiò un pezzetto di pane al miele. — Mah, dopotutto, penso che potrei prendere una tazza di cioccolata — disse, e suonò il campanello posato sul vassoio. Efor apparve alla porta. — Un’altra tazza — disse Pae, senza voltarsi. — Be’, signore, desideravamo portarla in giro ancora qualche volta, adesso che il tempo ritorna bello, per mostrarle altre zone del paese. O anche una visita all’estero, magari. Ma questa maledetta guerra ha messo la parola fine ai nostri progetti, temo.

Shevek guardò i titoli del giornale in cima alla pila: A-IO, THU SI SCONTRANO PRESSO CAPITALE BENBILI.

— C’erano notizie più recenti per televisione — disse Pae. — Abbiamo liberato la capitale. Il Generale Havevert sarà reintegrato.

— Allora, la guerra è finita?

— Non ancora, poiché il Thu tiene ancora le due province orientali.

— Capisco. Dunque, il vostro esercito e quello del Thu si combatteranno nel Benbili. E non qui?

— No, no. Sarebbe una pazzia che ci invadessero, o che noi li invadessimo. Abbiamo superato quel tipo di barbarie che portava ogni volta la guerra nel cuore di stati altamente civilizzati! L’equilibrio del potere viene conservato da questo tipo di azioni di polizia. Comunque, noi siamo ufficialmente in guerra. E tutte le solite noiose restrizioni ritorneranno in effetto, temo.

— Restrizioni?

— La segretezza di tutte le ricerche compiute nel Collegio della Nobile Scienza, per esempio. Niente d’importante, comunque, soltanto un timbro governativo. E a volte un ritardo nella pubblicazione di qualche articolo, quando i pezzi grossi pensano che sia pericoloso perché non lo capiscono!… E gli spostamenti saranno un po’ limitati, specialmente per lei e gli altri stranieri presenti tra noi, temo. Finché durerà lo stato di guerra, lei non dovrebbe lasciare l’area universitaria, penso, senza il permesso del Cancelliere. Ma non ci badi. Posso farla uscire quando desidera, senza farle fare tutta la tiritera.

— Lei tiene le chiavi — disse Shevek, con un sorriso ingenuo.

— Oh, sono un assoluto specialista in questo genere di cose. Mi piace aggirare le leggi e far fesse le autorità. Forse sono per natura un anarchico, eh? Dove diavolo s’è cacciato quel vecchio rimbambito, lui e la mia tazza?

— Per prenderla, deve scendere fino alle cucine.

— Be’, non dovrebbe metterci mezza giornata. Va be’, non ho voglia di aspettare. Non voglio portarle via quanto le resta del mattino. Tra l’altro, ha visto l’ultimo Bollettino della Fondazione per le Ricerche Spaziali? Hanno presentato i piani di Reumere per l’ansible.

— Che cos’è l’ansible?

— È quel che lui chiama uno strumento di comunicazione istantanea. Dice che se i temporalisti… e qui si riferisce a lei, naturalmente… tirassero soltanto fuori le equazioni dell’inerzia temporale, gli ingegneri… che sarebbe lui… potrebbero costruire il maledetto apparecchio, provarlo, e così, per inciso, dimostrare la validità della teoria, nel giro di pochi mesi o poche settimane.

— Gli ingegneri sono già di per se stessi una dimostrazione dell’esistenza della reversibilità causale. Vede come Reumere ha già costruito il suo effetto prima che io gli abbia fornito la causa. — Sorrise di nuovo, ma questa volta in modo assai meno ingenuo. Quando Pae si fu chiuso la porta alle spalle, Shevek si alzò di scatto. — Sporco bugiardo profittatore! — esclamò in pravico, livido di rabbia, con le mani serrate a pugno per non cedere alla tentazione di afferrare qualcosa e scagliarlo contro Pae.

Entrò Efor, portando un vassoio con una tazza e un piattino. Si arrestò sulla soglia, con uno sguardo d’apprensione.

— Non è niente, Efor. Pae… Non voleva più la tazza. Puoi portare via tutto.

— Benissimo, signore.

— Senti. Non vorrei visite, per un certo periodo. Puoi tener fuori la gente?

— Molto facilmente, signore. Nessuno in particolare?

— Sì, lui. E tutti. Di’ che lavoro.

— Sarà lieto di saperlo, signore — disse Efor, e le sue rughe si sciolsero per un istante in una smorfia maliziosa; poi, con familiarità rispettosa: — Faccio passare nessuno che lei non vuole — e infine, con proprietà di linguaggio e tono ufficiale: — Grazie, signore, e felice giornata a lei.

Il cibo, e l’adrenalina, avevano fatto svanire la paralisi di Shevek. Cominciò a passeggiare su e giù per la stanza, nervoso e inquieto. Voleva fare qualcosa. Ormai aveva perso quasi un anno senza fare nulla, oltre che rendersi ridicolo. Era ora che facesse qualcosa.

Dunque, per fare che cosa, era venuto su Urras?

Per fare della fisica, per asserire, con il suo talento, un diritto di ogni cittadino di ogni società: il diritto di lavorare, di venire mantenuto mentre lavorava, e di condividere il prodotto con tutti coloro che lo desideravano. Il diritto di ogni Odoniano e di ogni uomo libero.

I suoi ospiti benevoli e protettivi gli permettevano di lavorare, e lo mantenevano mentre lavorava, d’accordo. Il guaio veniva nella terza parte della cosa. E neppure lui era ancora arrivato a quello stadio. Non poteva condividere ciò che non possedeva.

Ritornò alla scrivania, si sedette e prese un paio di ritagli di carta fittamente vergati che teneva nella tasca meno accessibile, meno usata, dei suoi calzoni stretti ed eleganti. Allargò con le dita i due ritagli e cominciò a osservarli. Gli venne in mente ch’egli stava diventando come Sabul: scriveva molto piccolo, abbreviato, su pezzetti di carta. Ora sapeva perché Sabul lo facesse: Sabul era possessivo, tendeva a nascondere, a celare. Quello che su Anarres era psicopatia, su Urras era un comportamento razionale.

Di nuovo Shevek tornò a sedersi immobile, con la testa china, e a studiare i due piccoli pezzi di carta su cui aveva annotato alcuni punti essenziali della Teoria Temporale Generale, fin dove arrivava.

Per i tre giorni successivi sedette alla scrivania e fissò i due pezzetti di carta.

A volte si alzava e camminava per la stanza, o scriveva qualcosa, o usava il calcolatore da tavolo, o chiedeva a Efor di portargli qualcosa da mangiare o si stendeva sul letto e cadeva addormentato. Poi tornava a sedersi alla scrivania.


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