— Troppo lontano da Rolny — disse, osservando la carta e notando nelle montagne del Nordest la piccola cittadina isolata dove Takver era cresciuta, Valle Rotonda. — E al laboratorio marino non hanno bisogno di un custode? Di uno statistico? Di qualcuno che dia da mangiare ai pesci?

— Vado a controllare.

La rete di archivi umani e computerizzati della Divisione del Lavoro era allestita con efficienza mirabile. In meno di cinque minuti l’impiegata trasse l’informazione desiderata dall’enorme massa di dati in ingresso e in uscita, riguardanti ogni lavoro svolto, ogni incarico desiderato, ogni lavoratore richiesto, e le priorità di ciascuno nell’economia generale della società mondiale. — Hanno appena riempito la quota di una chiamata d’emergenza… si tratta della compagna, vero? Hanno trovato tutti coloro che desideravano, quattro tecnici e un pescatore esperto. Personale completo.

Shevek appoggiò i gomiti sul banco e chinò il capo, grattandosi la fronte: un gesto di confusione e di sconfitta nascosto dall’imbarazzo. — Be’ — disse, — non so proprio cosa fare.

— Senti, fratello, quanto tempo dura l’incarico della compagna?

— Indefinito.

— Ma è un lavoro di prevenzione della carestia, no? Non continuerà ad andare avanti per sempre. Non può! Pioverà, quest’inverno.

Egli alzò lo sguardo sul viso onesto, simpatico, preoccupato della propria sorella. Sorrise debolmente, poiché non poteva lasciare senza risposta quel tentativo di dargli una speranza.

— Ritornerete uniti. E intanto…

— Sì. Intanto — egli disse.

La donna attese la sua decisione.

Doveva decidere lui, e le possibilità erano infinite. Poteva rimanere ad Abbenay, e organizzare corsi di fisica se avesse trovato studenti volontari. O recarsi nella Penisola di Rolny e vivere con Takver, sebbene privo di un qualsiasi posto nella stazione di ricerca. Oppure poteva recarsi in qualsiasi posto e non fare altro che muoversi due volte al giorno per andare alla mensa più vicina e farsi nutrire. Poteva fare ciò che gli piaceva.

L’identità delle parole «lavoro» e «gioco» in pravico aveva, naturalmente, un forte significato etico. Odo aveva visto il pericolo che sorgesse un rigido moralismo dall’uso della parola «lavoro» nel suo sistema analogico: le cellule devono lavorare insieme, il lavoro svolto da ciascun elemento e così via. Cooperazione e funzione, i due concetti fondamentali della Analogia, implicavano lavoro. Odo aveva visto la trappola morale. «Il santo non è mai troppo indaffarato» ella aveva detto, forse con una punta di tristezza.

Ma le scelte di un essere sociale non sono mai compiute da lui solo.

— Be’ — disse Shevek, — sono appena arrivato da un’assegnazione di prevenzione della carestia. C’è qualche altra cosa simile che occorra fare?

L’impiegata gli rivolse un’occhiata da sorella maggiore, d’incredulità e insieme di perdono. — Ci sono circa settecento chiamate Urgenti affisse in giro per la sala — disse. — Quale preferisci?

— Nessuna che richieda matematici?

— In prevalenza agricoltori e operai specializzati. Hai fatto studi di ingegneria?

— Poca roba.

— Be’, allora c’è la coordinazione del lavoro. Certamente ci vuole una testa abituata alle cifre. Ti va questo?

— D’accordo.

— È nel Sudovest; nella Polvere, lo sai.

— Sono già stato nella Polvere altre volte. E poi, come hai detto tu, un giorno pioverà…

Ella annuì, sorrise e batté a macchina sulla sua scheda Div-Lab: DA Abbenay, N.O., Ist. Centr. Scienze, A Gomito, S.O., coord. lav., fosfatificio N. 1: INCAR. EMGZA: 5.1.3.165-indefinito.

CAPITOLO 9

Shevek venne destato dalle campane della torre della cappella, che suonavano la Prima Armonia per annunciare le funzioni religiose del mattino. Ciascuna nota fu per lui come un pugno alla nuca. Era talmente pieno di nausea, e tremante, che non riusciva a rimanere seduto sul letto che per brevi periodi. Infine riuscì a trascinarsi nella stanza da bagno e a fare un lungo bagno freddo, che servì ad alleviargli il mal di capo; ma continuò a sentire l’intero suo corpo come una cosa estranea: a sentirlo, inesplicabilmente, come una cosa vile. Quando ritornò nuovamente in grado di pensare, si affacciarono alla sua mente frammenti e istanti della sera precedente, scene vivide e prive di significato del ricevimento a casa di Vea. Cercò di non pensarvi, ma in breve si accorse di non poter pensare ad altro. Ogni cosa, tutto divenne vile. Si sedette alla scrivania e rimase a sedere immobile, assolutamente miserabile, e a fissare nel vuoto, per più di mezz’ora.

Si era trovato in imbarazzo abbastanza spesso, e si era accorto molte volte di avere fatto la figura dello scemo. Da giovane aveva sofferto della sensazione che gli altri lo ritenessero strambo, diverso da loro; in anni successivi aveva sperimentato, dopo averla deliberatamente invitata, la collera e il disprezzo di molti suoi colleghi anarresiani. Ma non aveva mai accettato veramente, realmente, il loro giudizio. Non si era mai vergognato di se stesso.

Non sapeva che la paralizzante umiliazione che provava era una conseguenza chimica del fatto di essersi ubriacato, al pari del mal di testa. Né la conoscenza di questo particolare avrebbe contato molto per lui. La vergogna — la sensazione di essere una cosa vile, il senso di distacco da sé — fu una rivelazione. Egli vide con una nuova chiarezza, una chiarezza spaventosa; e vide molto più in là di quei ricordi incoerenti della sera passata in casa di Vea. Non era stata soltanto la povera Vea a tradirlo. Non era stato soltanto l’alcool che aveva cercato di vomitare; era stato tutto il pane ch’egli aveva mangiato su Urras.

Appoggiò i gomiti sul piano della scrivania e si prese la testa tra le mani, premendo sulle tempie: la posizione rannicchiata del dolore; poi osservò la propria vita alla luce della vergogna.

Su Anarres egli aveva scelto, sfidando le attese della propria società, di fare il lavoro che si sentiva individualmente chiamato a fare. Fare quel lavoro era ribellarsi: rischiare la persona per amore della società.

Qui su Urras, quell’atto di ribellione era un lusso, era indulgere alle proprie passioni. Essere un fisico su Urras equivaleva a servire non la società, non l’umanità, non la verità, bensì lo Stato.

Nella sua prima sera in quella stanza, egli aveva domandato loro, in tono di sfida e di curiosità: - Che cosa intendete fare di me? — Ed egli sapeva, adesso, che cosa avevano fatto di lui. Chifoilisk gli aveva detto la semplice realtà. Essi lo possedevano. Aveva pensato di poter mercanteggiare con loro: un’idea estremamente ingenua, da anarchico. L’individuo non può mercanteggiare con lo Stato. Lo Stato non riconosce altra moneta che il potere: e batte la moneta da sé.

Vedeva ora — nei particolari, un episodio dopo l’altro, fin dall’inizio — di avere commesso un errore nel venire su Urras; il suo primo grosso errore, e un errore che probabilmente gli sarebbe durato per il resto della vita. Una volta visto ciò, una volta riesaminate tutte le prove che aveva rimosso e negato per mesi (e per farlo gli occorse un lungo tempo, seduto immobile alla scrivania) e giunto alla ridicola e abominevole ultima scena con Vea, e rivissuta anche quella, e sentita la propria faccia diventare rovente e le orecchie fischiare: a questo punto, tutto terminò. Anche in quella sua postalcolica valle di lacrime, egli non provava alcun senso di colpa. Era tutto finito, ora, e ciò a cui doveva pensare era: che cosa doveva fare, adesso? Essendosi chiuso in prigione, come poteva agire da uomo libero?

Non era disposto a fare fisica per i politici. Questo era chiaro, ormai.

Se avesse cessato di lavorare, lo avrebbero lasciato andare a casa?

A questo pensiero, trasse un lungo respiro e sollevò la testa, fissando, senza vederlo, il panorama verde illuminato dal sole fuori della finestra. Per la prima volta si era concesso di pensare al ritorno a casa come a una genuina possibilità. Quel pensiero minacciò di abbattere le saracinesche e di sommergerlo di desiderio incalzante. Parlare pravico, parlare con amici, vedere Takver, Pilun, Sedik, toccare la polvere di Anarres…


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