Maedda sorrise. — No. Non mi piace affatto. Ma anche il mio governo non vuole molto bene a me. Lei non ha scelto il posto più sicuro dove recarsi, né per lei né per noi… Non si preoccupi. Oggi è il giorno; decideremo adesso cosa fare.

Shevek prese il messaggio che aveva trovato in tasca al cappotto e lo porse a Maedda. — Questa è la cosa che mi ha fatto venire. Proviene da gente che lei conosce?

— «Unisciti a noi tuoi fratelli…». Non so. Forse.

— Voi siete Odoniani?

— Parzialmente. Sindacalisti, libertari. Lavoriamo con i thuvianisti, il Sindacato Socialista dei Lavoratori, ma siamo anticentralisti. Lei è arrivato in un momento molto caldo, sa.

Maedda annuì. — È annunciata una dimostrazione, a tre giorni da oggi. Contro il reclutamento, le tasse di guerra, l’aumento di prezzo degli alimentari. Ci sono quattrocentomila disoccupati a Nio Esseia, e loro alzano le tasse e i prezzi. — Aveva continuato a fissare attentamente Shevek per tutta la durata della conversazione; ora, come se l’esame fosse finito, distolse lo sguardo e appoggiò la schiena alla sedia. — Questa città è pronta a tutto. Quel che ci occorre è uno sciopero, uno sciopero generale, e dimostrazioni con grande partecipazione di massa. Come lo sciopero del Mese Nono, guidato da Odo — aggiunse con un sorriso asciutto, forzato. — Ci servirebbe una Odo, oggi. E loro non hanno nessuna Luna con cui comprarci, questa volta. Faremo giustizia qui, o in nessun luogo. — Fissò nuovamente Shevek, e infine disse in tono più dolce: — Lei sa che cosa ha significato la vostra società, qui, per noi, negli ultimi centocinquant’anni? Sa che la gente, qui da noi, quando vuole augurarsi buona fortuna, dice: «Possa tu rinascere su Anarres!». Sapere che esiste, che c’è una società senza governo, senza polizia, senza sfruttamento economico, in modo che loro non possano più ripetere che si tratta soltanto di un miraggio, di un sogno da idealisti! Mi chiedo se lei capisce pienamente la ragione per cui l’hanno tenuta così bene nascosta laggiù a Ieu Eun, dottor Shevek. Perché non le hanno mai permesso di comparire in una riunione aperta al pubblico. Perché le saranno dietro come cani dietro a un coniglio, nel momento in cui si accorgeranno che lei è scomparso. Non è soltanto per il fatto che vogliono quella sua idea, dottor Shevek. Ma perché lei stesso è un’idea. Un’idea pericolosa. L’idea dell’anarchia, fatta carne. Che cammina tra noi.

— Allora avete la vostra Odo — disse la ragazza con la sua voce debole e ansiosa. Era rientrata mentre Maedda stava parlando. — Dopotutto, Odo era soltanto un’idea. Il dottor Shevek ne è la dimostrazione.

Maedda rimase in silenzio per un istante. — Una dimostrazione indimostrabile — disse poi.

— Perché?

— Se la gente sapesse che è qui, lo saprebbe anche la polizia.

— Che venga pure, e che provi a prenderlo — disse la ragazza, e sorrise.

— La dimostrazione dovrà essere assolutamente non violenta — disse Maedda, con improvvisa violenza nella voce. — Anche il Sindacato Socialista ha accettato questa condizione!

— Io non l’ho accettata, Tuio. Non conto di lasciarmi spaccare la faccia o di sparare in testa dai cappotti neri. Se mi colpiranno, restituirò il colpo.

— Unisciti a loro, se ti piacciono i loro metodi. La giustizia non si ottiene con la forza!

— E il potere non si ottiene con la passività.

— Noi non cerchiamo il potere. Noi cerchiamo la fine del potere! Che ne dice lei? — Maedda fece appello a Shevek. — I mezzi sono il fine. Odo l’ha ripetuto per tutta la vita. Soltanto la pace porta la pace, solo gli atti giusti portano giustizia! Non possiamo essere divisi su questo punto alla vigilia dell’azione!

Shevek portò lo sguardo sull’uomo, e sulla ragazza, e sull’uomo dei pegni, che ascoltava accanto alla porta, teso. Disse con voce stanca e tranquilla: — Se potete usarmi, usate me. Forse potrei pubblicare un comunicato a questo proposito, su uno dei vostri giornali. Non sono venuto su Urras per nascondermi. Se tutta la gente sapesse che sono qui, forse il governo avrebbe paura di arrestarmi in pubblico? Non so.

— È così — disse Maedda. — Naturalmente. — I suoi occhi scuri ardevano di eccitazione. — Dove diavolo è Remeivi? Va’ a chiamare sua sorella, Siro, dille di cercarlo e di farlo venire qui… Scriva perché è venuto qui, scriva di Anarres, scriva perché non vuole vendersi al governo, scriva cosa desidera… noi lo stamperemo. Siro! Chiama anche Meisthe… Noi la nasconderemo, ma per Dio, faremo sapere ad ogni uomo dell’A-Io che lei è qui, che lei è con noi! — Le parole uscivano da lui a valanga, le sue mani tremavano mentre parlava; cominciò ad andare avanti e indietro, rapidamente, per la stanza. — E poi, dopo la dimostrazione, dopo lo sciopero, vedremo. Forse le cose saranno differenti! Forse non dovrà più nascondersi!

— Forse tutte le porte delle prigioni si spalancheranno da sole — disse Shevek. — Su, datemi un po’ di carta, fatemi scrivere.

La ragazza Siro si avvicinò a lui. Sorridendo, si piegò come per inchinarsi a lui, un poco timorosamente, con decoro, e lo baciò sulla guancia; poi uscì. Il tocco delle sue labbra era freddo, ed egli lo sentì sulla guancia per lungo tempo.

Passò un solo giorno nella soffitta di una casa della Strada dei Giochi, e due notti e un giorno in una cantina, sotto un negozio di mobili usati, uno strano posto buio, pieno di specchiere vuote e di letti rotti. Scrisse. Gli portarono ciò che aveva scritto, stampato, entro poche ore: dapprima nel giornale Età Moderna, e in seguito, quando la tipografia dell’Età Moderna venne chiusa e i redattori arrestati, come volantini stampati in una tipografia clandestina, insieme con piani e incitamenti per le dimostrazioni e lo sciopero generale. Non rilesse ciò che scriveva. Non ascoltò Maedda e gli altri, che gli descrivevano l’entusiasmo con cui venivano letti i volantini, l’approvazione dilagante per il piano degli scioperi, l’effetto che la sua presenza alla dimostrazione avrebbe fatto agli occhi del mondo. Quando lo lasciavano solo, a volte prendeva un piccolo notes che teneva nel taschino della camicia e guardava gli appunti e le equazioni, scritti in cifrario, della Teoria Temporale Generale. Li guardava e non riusciva a leggerli. Non li capiva. Rimetteva di nuovo il notes nel taschino e sedeva con la testa tra le mani.

Anarres non aveva bandiere da agitare, ma tra i cartelli che inneggiavano allo sciopero generale, e le bandiere azzurre e bianche dei Sindacalisti e dei Lavoratori Socialisti c’erano molti cartelli fabbricati in casa che mostravano il verde Cerchio della Vita, il vecchio simbolo del Movimento Odoniano di due secoli prima. Tutte le bandiere e le insegne splendevano bravamente al sole.

Era bello stare all’aperto, dopo le stanze dalle porte chiuse a chiave, i nascondigli. Era bello camminare, dondolando le braccia, respirando l’aria pura di un mattino di primavera. Essere in mezzo a così tante persone, una folla così immensa, migliaia di persone che marciavano insieme, che riempivano tutte le trasversali oltre che gli ampi corsi lungo cui marciavano: era terribile, ma era anche esilarante. Quando cantavano, tanto l’esilaramento quanto la paura divenivano un’esaltazione cieca; gli occhi di Shevek si riempivano di lacrime. Era profondo, nelle strade profonde, temperato dall’aria aperta e dalle distanze, indistinto, soggiogante, quel sollevarsi di migliaia di voci in un solo canto. Il canto del fronte della marcia, assai lontano, al fondo della strada, e delle folle infinite che lo seguivano erano sfasati dalla distanza che il suono stesso doveva percorrere, cosicché il motivo pareva sempre indugiare e poi recuperare rispetto a se stesso, come un canone, e tutte le parti del canto venivano cantate nello stesso tempo, nello stesso momento, anche se ogni persona che cantava intonava il motivo come una linea, dall’inizio alla fine.

Shevek non conosceva i loro canti, e si limitava ad ascoltare e a lasciarsi trasportare dalla musica, finché a partire dal fronte si spinse all’indietro, travolgente, di onda in onda, lungo il grande e lento fiume di persone, un canto ch’egli conosceva. Sollevò il capo e lo cantò con loro, nella propria lingua, nelle parole in cui l’aveva imparato: l’Inno dell’Insurrezione. Era stato cantato in quelle strade, in quelle medesime strade, duecento anni prima, dalla stessa gente, la sua gente.


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