O luce dell’est, ridesta

Coloro che han dormito!

Il buio verrà infranto,

La promessa mantenuta.

Le file accanto a Shevek tacquero per ascoltarlo da lui, ed egli cantò con tutta la sua voce, sorridendo, procedendo con loro.

C’erano forse centomila esseri umani in Piazza del Campidoglio, o forse due volte tanto. Gli individui, al pari delle particelle della fisica atomica, non potevano venire contati, né si potevano determinare le loro posizioni, né prevedere il loro comportamento. Eppure, come massa, quella enorme massa fece ciò che gli organizzatori dello sciopero avevano previsto: si raccolse, marciò ordinatamente, cantò, riempì la Piazza del Campidoglio e tutte le strade circostanti, rimase immobile nella sua innumerabilità, inquieta ma paziente nel chiaro mezzogiorno ad ascoltare gli oratori, le cui singole voci amplificate in modo irregolare battevano e riecheggiavano sulle facciate illuminate dal sole del Senato e del Direttorato, raschiavano e sibilavano al di sopra del mormorio continuo, attutito, vasto della folla stessa.

C’erano più persone, ferme nella Piazza, di quante ne vivessero in tutta Abbenay, pensò Shevek, ma era un pensiero senza significato, un tentativo di quantificare l’esperienza diretta. Era fermo con Maedda e gli altri sui gradini del Direttorato, davanti alle colonne e alle alte porte di bronzo, e vedeva il campo tremulo e scuro di facce, e ascoltava gli oratori come li ascoltavano anch’esse: non ascoltare e comprendere nel senso in cui la mente razionale individuale percepisce e comprende, ma piuttosto come una persona guarda una cosa o ascolta i propri pensieri, o come un pensiero percepisce e comprende il Sé. E quando egli parlò, parlare non fu molto diverso dall’ascoltare. Non era la sua volontà cosciente a muoverlo, in lui non c’era coscienza di se stesso. La multipla eco della sua voce proveniente da altoparlanti lontani e riverberata dalle facciate di pietra dei massicci edifici, tuttavia, lo distrasse un poco, facendolo esitare di tanto in tanto e facendolo parlare molto lentamente. Ma non esitò mai per cercare le parole. Egli disse la loro mente, il loro essere, nella loro lingua, anche se si limitò a dire ciò che aveva già detto dal proprio isolamento, dal centro del proprio essere, molto tempo addietro.

— È la nostra sofferenza che ci porta insieme. Non è l’amore. L’amore non obbedisce alla mente, e diventa odio quando viene forzato. Il legame che ci unisce è al di là della scelta. Noi siamo fratelli. Siamo fratelli in ciò che condividiamo. Nel dolore, che ciascuno di noi deve soffrire da solo, nella fame, nella povertà, nella speranza, conosciamo la nostra fratellanza. Lo sappiamo, perché abbiamo dovuto impararlo. Sappiamo che il solo aiuto per noi è quello che ci diamo reciprocamente, che nessuna mano ci salverà se non tenderemo la mano. E la mano che voi tendete è vuota, come la mia. Voi non avete nulla. Voi non possedete nulla. Voi non siete proprietari di nulla. Voi siete liberi. Tutto ciò che avete è ciò che siete, e ciò che date.

«Io sono qui perché voi vedete in me la promessa, la promessa da noi fatta duecento anni fa in questa stessa città… la promessa mantenuta. Noi l’abbiamo mantenuta, su Anarrés. Noi non abbiamo altro che la nostra libertà. Noi non abbiamo altro da darvi che la vostra libertà. Noi non abbiamo altra legge che il singolo principio dell’aiuto reciproco tra individui. Non abbiamo altro governo che il singolo principio della libera associazione. Non abbiamo stati, non abbiamo nazioni, presidenti, capi del governo, capi militari, generali, principali, banchieri, padroni di casa, non abbiamo salari, ospizi, polizia, soldati, guerre. E le cose che abbiamo non sono molte. Siamo compartecipanti, e non proprietari. Non siamo prosperi. Nessuno di noi è ricco. Nessuno di noi ha potere. Se è Anarres ciò che volete, se Anarres è il futuro che cercate, allora vi dirò che dovete accostarvi ad esso con mani vuote. Dovete raggiungerlo da soli, e nudi, come il bambino giunge nel mondo, nel futuro, senza alcun passato, senza alcuna proprietà, dipendente in tutto da altri per la sua vita. Non potete prendere ciò che non avete dato, e dovete dare voi stessi. Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. È nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo.»

Quando stava finendo di parlare, il rombo degli elicotteri della polizia che si avvicinavano cominciò a sommergere la sua voce.

Si allontanò dai microfoni e guardò in alto, stringendo le palpebre contro il sole. Poiché molti nella folla fecero come lui, il movimento delle loro teste e delle loro mani fu simile al passaggio del vento su un campo di grano illuminato dal sole.

Il frastuono delle pale rotanti delle macchine nell’ampia scatola di pietra della Piazza del Campidoglio era intollerabile: strepiti e stridori come la voce di un mostruoso robot. Esso sommerse il crepitio delle mitragliatrici sparate da bordo degli elicotteri. Anche quando il suono della folla si alzò in tumulto, il rombo degli elicotteri fu ancora udibile al di sopra di esso: l’urlo privo di mente delle armi, la parola senza significato.

Il fuoco degli elicotteri era puntato sulle persone ferme sui gradini del Direttorato o nelle immediate vicinanze. Il portico a colonne dell’edificio offerse immediato rifugio a coloro che stavano sui gradini, e in pochi istanti divenne una compatta massa di persone. Il rumore della folla, mentre la gente incalzava, presa dal panico, verso le otto strade che si allontanavano dalla Piazza del Campidoglio, si innalzò in un lamento simile a un grande vento. Gli elicotteri erano vicino alla folla, su di essa, ma non si poteva capire se avessero cessato il fuoco o stessero ancora sparando; i morti e i feriti nella folla erano premuti troppo strettamente per cadere.

Le porte foderate di bronzo del Direttorato cedettero con uno schianto che nessuno udì. La gente premeva e inciampava verso di esse per mettersi al riparo, per sottrarsi alla pioggia di metallo. Si spinsero a centinaia nelle alte sale di marmo: alcuni rannicchiandosi per nascondersi nel primo rifugio che scorgevano, altri andando avanti per trovare l’uscita posteriore, altri fermandosi a spaccare tutto ciò che potessero prima dell’arrivo dei soldati. Quando i soldati arrivarono, risalendo in marcia, nei loro bei cappotti neri, i gradini, tra uomini e donne morti e morenti, videro sulla parete alta, grigia, levigata del grande atrio una parola scritta all’altezza degli occhi di un uomo in piedi, con grandi macchie di sangue: ABBASS.

Spararono al morto che giaceva più vicino alla parola, e in seguito, quando il Direttorato fu riportato all’ordine, la parola venne lavata via dalla parete con acqua, sapone e stracci: ma rimase; era stata pronunciata; aveva significato.

Comprese ch’era impossibile andare più avanti con l’uomo che era con lui: l’uomo diventava debole, cominciava a inciampare. Non c’era alcun posto dove andare, soltanto lontano dalla Piazza del Campidoglio. E non c’era alcun posto dove fermarsi, anche. La folla si era due volte raccolta in Viale Mesee, cercando di presentare un fronte alla polizia, ma i carri armati dell’esercito erano giunti di rincalzo alla polizia, e avevano spinto la folla innanzi a sé, verso la Città Vecchia. Né l’una né l’altra volta i soldati spararono, ma si poteva udire il crepitio delle mitragliatrici da altre strade. Gli elicotteri percorrevano avanti e indietro le strade; da sotto di quelli non si poteva scappare.

L’uomo insieme a Shevek respirava ad ansiti, boccheggiava mentre avanzava faticosamente. Shevek l’aveva per metà trasportato per vari isolati, e adesso si trovavano alquanto indietro rispetto alla massa principale della folla. Era inutile cercare di raggiungerla. — Ecco, siediti qui — disse all’uomo, e lo aiutò a sedersi sullo scalino più alto della scala che portava all’ingresso seminterrato di una qualche sorta di deposito, sulle cui finestre chiuse era scritta col gesso la parola SCIOPERO, a grandi lettere. Scese fino alla porta del seminterrato e provò ad aprirla; era chiusa a chiave. Tutte le porte erano chiuse a chiave. La proprietà era privata. Egli raccolse un pezzo di lastra rotto da un angolo degli scalini e colpì fino a staccare dalla porta il lucchetto e l’anello, lavorando né furtivamente né vendicativamente, bensì con la sicurezza di una persona che lavorasse sulla propria porta d’ingresso. Guardò all’interno. Il seminterrato era pieno di casse e vuoto di persone. Aiutò l’altro uomo a scendere gli scalini, chiuse la porta alle loro spalle e disse: — Siediti, sdraiati, se vuoi. Vado a cercare acqua.


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