Il luogo, evidentemente un deposito di sostanze chimiche, aveva una fila di lavandini, e un sistema di idranti per gli incendi. L’altro uomo era svenuto, quando Shevek fu di ritorno. Egli colse l’occasione per lavare la mano dell’uomo con un filo d’acqua del tubo e per dare un’occhiata alla sua ferita. Era peggiore di quanto pensasse. Più di un proiettile doveva averla colpita, staccandogli nette due dita e fracassandogli il palmo e il polso. Spuntavano schegge d’osso simili a stuzzicadenti. L’uomo era fermo accanto a Shevek e Maedda quando gli elicotteri avevano cominciato a fare fuoco, e, colpito, si era afferrato a Shevek per sostenersi. Shevek aveva tenuto un braccio intorno a lui per tutta la durata della fuga nell’interno del Direttorato; due persone riuscivano a stare in piedi meglio di una sola, nella prima, selvaggia calca.

Fece quanto poté per fermare il sangue con un fazzoletto arrotolato, e per bendare, o almeno coprire, la mano fracassata, e fece bere all’uomo un po’ d’acqua. Non conosceva il suo nome; dalla fascia bianca al braccio doveva essere uno degli Operai Socialisti; pareva avere l’età di Shevek, sulla quarantina, o forse qualche anno di più.

Alle cave del Sudovest, Shevek aveva visto uomini feriti molto più gravemente di questo in incidenti, e aveva imparato che la gente può sopportare e superare cose incredibili, in ciò che riguardava le gravi ferite e il dolore. Ma laggiù ci si era presa cura dei feriti. C’era un chirurgo per amputare, plasma per compensare le perdite di sangue, un letto su cui giacere.

Si sedette sul pavimento accanto all’uomo, che adesso era in stato di semincoscienza, nello shock, e si guardò attorno, osservando le file di casse, i lunghi corridoi bui in mezzo ad esse, il lucore bianchiccio del giorno, che filtrava dalle fessure delle finestre chiuse, sulla parete anteriore, le bianche righe di salnitro sul soffitto, i segni degli stivali degli operai e delle ruote dei carrelli sull’impolverato pavimento di cemento. Un’ora centinaia di migliaia di persone che cantavano sotto il cielo aperto; un’ora dopo, due uomini nascosti in un seminterrato.

— Siete spregevoli — disse Shevek, in pravico, all’altro uomo. — Non potete tenere aperte le porte. Non sarete mai liberi. — Toccò delicatamente la fronte dell’uomo; era fredda e sudata. Allargò per qualche momento la fasciatura, poi si alzò, attraversò il buio seminterrato fino alla porta e si affacciò sulla strada. La squadra di carri armati era passata. Pochi sbandati della dimostrazione gli passarono davanti, di corsa, con la testa bassa, in territorio nemico. Shevek cercò di fermarne due; un terzo finalmente si arrestò. — Mi serve un dottore, c’è un ferito. Puoi mandare qui un dottore?

— Meglio portarlo via.

— Aiutami a trasportarlo.

L’uomo si allontanò. — Vengono di qua — gli disse ancora, girando indietro la testa. — Fai meglio a scappare.

Non passò nessun altro, e infine Shevek scorse una fila di soldati dal cappotto nero, in fondo alla strada, lontano. Ritornò al seminterrato, chiuse la porta, si riavvicinò al ferito, si sedette accanto a lui sulla polvere del pavimento. — Al diavolo — disse.

Dopo un poco, prese dalla tasca della camicia il piccolo notes e cominciò a studiarlo.

Nel pomeriggio, guardando con cautela all’esterno, vide un carro armato stazionato dall’altra parte della strada, e due altri, messi di traverso, all’incrocio. Questo spiegava le grida che aveva udito: dovevano essere soldati che si passavano ordini tra loro.

Atro gli aveva spiegato, una volta, come si facesse, come i sergenti potessero dare ordini ai soldati, i tenenti potessero dare ordini a soldati e sergenti, i capitani… e così via fino ai generali, che potevano dare ordini a tutti e non dovevano prenderne da nessuno, eccetto il comandante in capo. Shevek aveva ascoltato con disgusto e incredulità. — La chiami organizzazione? — aveva domandato. — La chiami addirittura disciplina? Ma non è nessuna delle due cose. È un meccanismo coercitivo di straordinaria inefficienza… una sorta di macchina a vapore del settimo millennio! Una struttura così rigida e fragile, che cosa può fare che ne valga la pena? — Questo aveva dato modo ad Atro di parlare del valore della guerra come nutrice del coraggio e della virilità ed eliminatrice degli inadatti, ma per il filo stesso del suo ragionamento era costretto a concedere l’efficacia della guerriglia, organizzata dal basso, autodisciplinata. — Ma essa funziona soltanto quando la gente pensa di combattere per qualcosa di proprio… sai, la loro casa o un’idea o l’altra — aveva detto l’anziano scienziato. Shevek aveva cambiato argomento. Adesso continuò la discussione, nel buio seminterrato, tra le pile di casse di sostanze chimiche prive di etichetta. Spiegò ad Atro ch’egli adesso capiva perché l’esercito fosse organizzato nel modo in cui era organizzato. Anzi, era necessario che fosse così. Nessuna forma razionale di organizzazione sarebbe servita allo scopo. Egli, semplicemente, non aveva capito che lo scopo era quello di permettere a uomini con mitragliatrici di uccidere uomini e donne disarmati, facilmente e in grande quantità, quando veniva loro ordinato di farlo. Solo, non riusciva ancora a capire come il coraggio, la virilità o l’adattamento c’entrassero.

Di tanto in tanto parlò anche con l’uomo che era con lui, quando cominciò a scendere il buio. L’uomo era adesso sdraiato con gli occhi aperti, e un paio di volte aveva emesso dei gemiti in un modo che aveva toccato il cuore di Shevek, gemiti pazienti, quasi infantili. Aveva compiuto un generoso sforzo per tenersi in piedi e per continuare ad andare avanti, per tutto il periodo in cui erano avvolti dal primo panico della folla che li aveva spinti nel Direttorato e fuori di esso, e quando si erano messi a correre, e poi a camminare, verso la Città Vecchia; aveva tenuto sotto il cappotto la mano ferita, premuta contro il fianco, e aveva fatto del suo meglio per continuare ad andare avanti e non far rimanere indietro Shevek. La seconda volta che aveva emesso un gemito, Shevek gli aveva preso la mano sana e aveva bisbigliato: — No, no. Sta’ quieto, fratello — soltanto perché non poteva sopportare di udire il suo dolore senza poter fare nulla per lui. L’uomo probabilmente aveva pensato ch’egli intendesse dire che doveva stare quieto per non tradire alla polizia la loro presenza, poiché annuì debolmente e strinse le labbra.

I due resistettero laggiù per tre notti. Per tutto quel periodo vi furono combattimenti sporadici nel distretti dei magazzini, e lo sbarramento dell’esercito non si spostò da quell’isolato del Viale Mesee. I combattimenti non giunsero mai molto vicino allo sbarramento, che era fortemente presidiato, cosicché i due uomini nascosti non ebbero alcuna opportunità di uscire senza farsi catturare. Una volta, quando il suo compagno era sveglio, Shevek gli domandò: — Se ci consegnassimo alla polizia, che cosa farebbero?

L’uomo sorrise e bisbigliò: — Ci sparerebbero.

Poiché si erano sentite molte sventagliate di mitragliatrice, vicino e lontano, per ore, e di tanto in tanto qualche forte esplosione e il rombo degli elicotteri, questa opinione pareva giustamente fondata. La ragione del sorriso era assai meno chiara.

Morì a causa della perdita di sangue quella notte, mentre giacevano l’uno accanto all’altro per riscaldarsi, sul materasso apprestato da Shevek con paglia da imballaggio trovata nelle casse. Era già rigido quando Shevek si svegliò, e si rizzò a sedere, e ascoltò il silenzio nel grande seminterrato buio, e, fuori, nella strada e in tutta la città, un silenzio di morte.


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: