— Finirà col circolare un mucchio di vento — disse Takver, raggomitolata sotto le coperte. Si appoggiò a lui, ed egli le circondò le spalle con il braccio. — Prevedo di sì — egli rispose.

Per lungo tempo dopo che Takver si fu addormentata, Shevek rimase desto, con le mani sotto la nuca, a fissare nell’oscurità e ad ascoltare il silenzio. Pensò al lungo viaggio che l’aveva portato via dalla Polvere, ricordando i livelli e i miraggi del deserto, il macchinista dalla testa calva e abbronzata e gli occhi candidi, il quale aveva detto che si doveva lavorare con il tempo e non contro di esso.

Shevek aveva imparato qualcosa sulla propria volontà, in quegli ultimi quattro anni. Nella frustrazione della sua volontà ne aveva imparato la forza. Nessun imperativo sociale o morale la uguagliava. Neppure la fame poteva allontanarla. Tanto meno egli aveva, tanto più assoluto diveniva il suo bisogno di essere.

Egli riconobbe quel bisogno, in termini Odoniani, come la sua «funzione cellulare», il termine analogico per l’individualità dell’individuo, il lavoro ch’egli può meglio compiere, e pertanto il suo contributo ottimale alla società. La società gli doveva lasciar esercitare liberamente quella sua funzione ottimale, e doveva trovare la propria libertà e la propria forza nella coordinazione di tutte quelle funzioni. Era questa un’idea centrale della Analogia di Odo. Il fatto che la società Odoniana di Anarres non avesse raggiunto l’ideale non poteva, agli occhi di Shevek, diminuire le sue responsabilità verso di essa; anzi, era vero il contrario. Eliminato il mito dello Stato, la reale mutualità e reciprocità della società e dell’individuo diveniva chiara. Poteva venire richiesto agli individui il sacrificio, ma non il compromesso: poiché sebbene soltanto la società potesse dare sicurezza e stabilità, soltanto l’individuo, la persona, aveva il potere della scelta morale: il potere di cambiare, la funzione essenziale della vita. La società Odoniana era concepita come una rivoluzione permanente, e la rivoluzione comincia nella mente che pensa.

Tutto questo Shevek aveva pensato, e in questi termini, poiché la sua coscienza era totalmente Odoniana.

Egli era pertanto certo, a questo punto, che la sua volontà incondizionata e radicale di creare era, in termini Odoniani, la giustificazione di se stessa. Il suo senso di primaria responsabilità verso il proprio lavoro non lo isolava dai suoi simili, dalla sua società, come aveva creduto. Lo impegnava con essi in modo assoluto.

Sentiva anche come un uomo che avesse questo senso di responsabilità verso una cosa, fosse obbligato a portarlo avanti fino in fondo in tutte le cose. Era un errore vedersi come il suo veicolo e niente altro, sacrificare ad essa ogni altro obbligo.

Questa disposizione a sacrificare era ciò che Takver aveva riconosciuto in se stessa quando era in gestazione: ne aveva parlato con una punta di orrore, di vergogna, poiché anch’ella era Odoniana, anche per lei la separazione dei fini dai mezzi era falsa. Tanto per lei quanto per lui non c’era fine. C’era il processo: il processo era tutto. Potevi andare in una direzione promettente o potevi sbagliare, ma non partivi con la previsione di fermarti in qualche punto, mai. Ogni responsabilità, ogni impegno così assunti acquistavano sostanza e durata.

Così il suo reciproco impegno con Takver, la loro relazione, era rimasta pienamente viva nel corso dei loro quattro anni di separazione. Entrambi avevano sofferto a causa della separazione, e sofferto molto, ma a nessuno di loro era venuto in mente di sfuggire alla sofferenza negando l’impegno.

Perché dopotutto, egli ora pensò, giacendo nel calore del sonno di Takver, la cosa che entrambi cercavano era la gioia: la completezza dell’essere. Se sfuggi alla sofferenza, sfuggi anche alla possibilità della gioia. Puoi ottenere il piacere, o i piaceri, ma non sarai mai appagato, esaudito. Non conoscerai mai il ritorno a casa.

Takver sospirò piano nel sonno, come per dire che era d’accordo con lui, e si voltò dall’altra parte, seguendo qualche suo tranquillo sogno.

L’esaudimento, pensò Shevek, è una funzione del tempo. La ricerca del piacere è circolare, ripetitiva, atemporale. La ricerca di varietà dello spettatore, del cacciatore di emozioni, di colui che pratica la promiscuità sessuale, termina sempre nello stesso punto. Ha una fine. Giunge alla fine e deve ricominciare. Non è un viaggio di andata e ritorno, ma un ciclo chiuso, una stanza chiusa a chiave, una cella.

Al di fuori della stanza chiusa a chiave c’è il passaggio del tempo, in cui lo spirito può, con la fortuna e il coraggio, costruire le fragili, improvvisate, improbabili strade e città della fedeltà: un paesaggio abitabile dagli esseri umani.

Soltanto quando un atto si svolge entro il paesaggio del passato e del futuro esso è un atto umano. La fedeltà, che asserisce la continuità di passato e futuro, e collega il tempo in un tutto unico, è la radice della forza umana; non c’è alcun bene che si possa compiere senza di essa.

Così, guardando indietro a quei quattro anni, Shevek li vide non come anni sprecati, ma come una parte dell’edificio che egli e Takver stavano costruendo con le loro vite. Il valore del lavorare con il tempo, invece che contro di esso, egli pensò, è che così non è sprecato. Anche il dolore conta.

CAPITOLO 11

Rodarred, l’antica capitale della Provincia AEana, era una città costituita di punte: una foresta di pini, e al di sopra delle guglie dei pini, una più aerea foresta di torri. Le strade erano scure e strette, muschiose, spesso nebbiose, al di sotto degli alberi. Soltanto dai sette ponti che attraversavano il fiume si poteva alzare lo sguardo e vedere la cima delle torri. Alcune di esse erano alte cento metri e più, altre erano dei semplici germogli, come se fossero case normali andate a seme. Alcune erano fatte di pietra, altre di porcellana, di mosaico, fogli di vetro colorato, coperture di rame, stagno, oro, ornate in modo incredibile, delicate, luccicanti. In queste strade affascinanti e allucinanti aveva sede l’urrasiano Consiglio dei Governi Mondiali fin dall’inizio dei suoi trecento anni d’esistenza. Anche molte ambasciate e consolati presso il Consiglio e l’A-Io si raggruppavano a Rodarred, a meno di un’ora da Nio Esseia, sede nazionale del governo.

L’ambasciata di Terra al Consiglio era ospitata nel Castello del Fiume, che si allargava basso e pesante tra l’autostrada per Nio e il fiume, e che ergeva soltanto una torre larga e triste, dal tetto quadrato e dalle feritoie simili ad occhi socchiusi. Le sue mura aveva resistito alle armi e alle precipitazioni di quattordici secoli. Alberi cupi si affollavano presso il suo lato più lontano dal fiume, e in mezzo ad essi c’era un ponte levatoio, sopra un fossato. Il ponte levatoio era abbassato, e le sue porte erano aperte. Il fossato, il fiume, l’erba verde, le mura nere, la bandiera in cima alla torre, tutti s’illuminarono tra la foschia quando il sole s’innalzò al di sopra della nebbia del fiume e tutte le campane delle torri di Rodarred affrontarono il loro compito prolungato e assurdamente armonioso di suonare le sette del mattino.

Un impiegato seduto a una modernissima scrivania, all’interno del castello, era impegnato in un tremendo sbadiglio. — Non siamo veramente aperti fino alle otto — disse cavernosamente.

— Voglio vedere l’Ambasciatore.

— L’Ambasciatore sta facendo colazione. Lei dovrà farsi dare un appuntamento. — Così dicendo, l’usciere si strofinò gli occhi assonnati e per la prima volta poté osservare chiaramente il visitatore. Lo fissò imbambolato, mosse le labbra varie volte e disse: — Chi è lei? Da dove… Che cosa vuole?

— Voglio vedere l’ambasciatore.

— Resti solo qui — disse l’usciere nel più puro accento Niota, continuando a fissarlo, e allungò la mano verso il telefono.


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