Un furgone si era intanto fermato nello spazio compreso tra la porta del ponte levatoio e l’ingresso dell’Ambasciata, e ne stavano uscendo vari uomini: i bottoni di metallo dei loro cappotti neri luccicavano al sole. Due altri uomini avevano appena messo piede nell’atrio, provenienti dal corpo centrale della costruzione, e parlavano tra loro: persone dall’aspetto strano, stranamente vestite. Shevek girò intorno alla scrivania dell’usciere e si avviò verso di loro, cercando di correre. — Aiuto! — disse.

I due alzarono lo sguardo, sorpresi. Uno si tirò indietro, aggrottando la fronte. L’altro guardò alle spalle di Shevek e vide il gruppo in uniforme, che stava entrando in quel momento nell’Ambasciata. — Entri qua — disse con freddezza; prese il braccio di Shevek e si chiuse con lui in un piccolo ufficio laterale: il tutto in due passi e un singolo gesto, precisi come quelli di un ballerino. — Che succede? Lei viene da Nio Esseia?

— Voglio vedere l’Ambasciatore.

— È uno scioperante?

— Shevek. Mi chiamo Shevek. Vengo da Anarres.

Gli occhi dello straniero si spalancarono, brillanti, intelligenti, nel suo volto nero come il giaietto. — Mio Dio! - mormorò il Terrestre, e poi, in iotico: — Intende chiedere asilo?

— Non so. Io…

— Venga con me, dottor Shevek. La porterò in un posto dove potrà sedere.

Ci furono corridoi, scale, e la mano dell’uomo dalla pelle nera sul suo braccio.

Delle persone cercavano di togliergli il cappotto. Si divincolò per impedirglielo, temendo che cercassero il notes che aveva nella tasca della camicia. Qualcuno parlò con autorità in una lingua straniera. Qualcun altro gli disse: — Va tutto bene: vogliamo soltanto vedere se è ferito. C’è del sangue sul suo cappotto.

— Un altro — disse Shevek. — È il sangue di un altro.

Riuscì a rizzarsi a sedere, anche se la testa gli girava. Era su un divano, in una stanza grande, illuminata dal sole; evidentemente doveva essere svenuto. Accanto a lui c’erano un paio di uomini e una donna. Li guardò senza capire.

— Lei si trova nell’Ambasciata di Terra, dottor Shevek. Qui è in suolo Terrestre. È perfettamente al sicuro. Può rimanere qui finché lo desidera.

La pelle della donna era di colore giallo-bruno, come terra ferrosa, ed era glabra, ad eccezione della testa; non depilata, ma glabra. I lineamenti erano strani e infantili: bocca piccola, naso corto, occhi con ciglia lunghe e piene, guance e mento arrotondati, imbottiti di grasso. L’intera figura era arrotondata, morbida, infantile.

— Lei qui è al sicuro — ripeté la donna.

Egli cercò di parlare, ma non ne fu capace. Uno degli uomini lo spinse leggermente sul petto, dicendo: — Si sdrai, si sdrai. — Egli si distese, ma mormorò ancora: — Voglio vedere l’Ambasciatore.

— Sono io l’Ambasciatore. Mi chiamo Keng. Siamo lieti che lei sia venuto da noi. Lei qui è al sicuro. Per favore, ora si riposi, dottor Shevek. Parleremo più tardi. Non c’è fretta. — La voce della donna aveva una strana caratteristica, come una cantilena, ma era roca, come la voce di Takver.

— Takver — egli disse, nella propria lingua, — non so cosa fare.

Lei gli rispose: — Dormi — ed egli si addormentò.

Dopo due giorni di sonno e di pasti, vestito nuovamente del suo abito grigio iotico, che nel frattempo era stato ripulito e stirato, egli venne introdotto nella sala privata dell’Ambasciatore, al terzo piano della torre.

L’Ambasciatore non gli fece un inchino né gli strinse la mano, ma unì le palme delle mani davanti al petto e sorrise. — Sono lieta che lei si senta meglio, dottor Shevek. No, devo dire soltanto Shevek, vero? Prego, si accomodi. Mi spiace di dover parlare con lei in iotico, che è una lingua straniera per entrambi. Non conosco la vostra lingua. Mi è stato detto che è una lingua molto interessante, l’unico linguaggio inventato razionalmente che è divenuto la lingua di un grande popolo.

Egli si sentiva grosso, pesante, peloso, a confronto di questa soave straniera. Si sedette in una delle profonde, morbide poltrone. Anche Keng si sedette, ma nel sedersi fece una smorfia. — Ho mal di schiena — disse, — a forza di sedere in queste poltrone troppo comode! — E Shevek comprese in quel momento che non era una donna di trent’anni o meno, come egli aveva pensato, ma che doveva avere sessant’anni o più; la pelle liscia e il fisico infantile l’avevano tratto in inganno. — A casa — continuò la donna, — sediamo prevalentemente su cuscini appoggiati in terra. Ma se lo facessi qui, dovrei alzare ancora di più la testa per parlare con le persone. Voi Cetiani siete così alti!… C’è un piccolo problema. Cioè, non siamo proprio noi ad averlo, ma il governo dell’A-Io. La sua gente di Anarres, le persone che mantengono comunicazione radio con Urras, sa, ha chiesto di parlare urgentemente con lei. E il Governo Iotico è imbarazzato. — Sorrise: un sorriso di puro divertimento. — Non sa cosa rispondere.

Era calma. Era calma come una pietra levigata dall’acqua che, a contemplarla, ti calma. Shevek si appoggiò allo schienale e lasciò passare un tempo molto considerevole prima di rispondere.

— Il Governo Iotico sa che sono qui?

— Be’, non ufficialmente. Noi non abbiamo detto nulla, e loro non hanno fatto domande. Ma molti impiegati e segretarie iotici lavorano qui nell’Ambasciata. Perciò, naturalmente, lo sanno.

— È per voi un pericolo… il fatto che io stia qui?

— Oh, no. La nostra ambasciata è accreditata presso il Consiglio dei Governi Mondiali, non presso la nazione dell’A-Io. Lei aveva pienamente il diritto di venire qui, e il resto del Concilio potrebbe costringere l’A-Io ad ammetterlo. E, come le ho detto, questo castello è suolo Terrestre. — Sorrise di nuovo. Il suo volto liscio si ripiegò in molti piccoli solchi, poi si dispiegò di nuovo. — Una deliziosa fantasia dei diplomatici! Questo castello, distante undici anni luce dalla Terra, questa stanza in una torre di Rodarred, nell’A-Io, sul pianeta Urras del sole Tau Ceti, è suolo Terrestre.

— Allora, potete dire loro che mi trovo qui.

— Ottimo. Semplificherà le cose. Volevo il suo consenso.

— Non c’erano… messaggi per me, da Anarres?

— Non lo so. Non ho chiesto. Non avevo pensato alla cosa dal suo punto di vista. Se c’è qualcosa che la preoccupa, potremmo trasmettere noi ad Anarres. Conosciamo la lunghezza d’onda usata dalla sua gente, naturalmente, ma non l’abbiamo mai usata perché non siamo mai stati invitati a farlo. Ci è parso meglio non forzare le cose. Ma possiamo facilmente predisporre una conversazione per lei.

— Avete un trasmettitore?

— Possiamo usare la nave come amplificatore… la nave Hainita in orbita attorno a Urras. Hain e Terra lavorano insieme, come forse lei sa. L’Ambasciatore di Hain sa che lei è con noi; è l’unica persona che ne sia stata informata ufficialmente. La radio è quindi a sua disposizione.

Egli la ringraziò, con la semplicità di una persona che non guarda dietro l’offerta per vedere le motivazioni dell’offerente. Lei lo studiò per un momento, con gli occhi acuti, diretti, quieti. — Ho ascoltato il suo discorso — disse.

Egli la fissò come da una grande distanza. — Discorso?

— Quando lei ha parlato alla grande dimostrazione in Piazza del Campidoglio. Oggi fa una settimana. Noi ascoltiamo sempre la radio clandestina, le trasmissioni degli Operai Socialisti e dei Libertari. Che, naturalmente, trasmettevano in diretta dalla dimostrazione. L’ho sentita parlare. Ne sono rimasta profondamente commossa. Poi si è udito un rumore, uno strano rumore, e si poteva sentire che la folla cominciava a gridare. Non ne spiegarono il motivo. Ci furono delle urla. Poi la trasmissione cessò bruscamente. Era terribile, terribile da ascoltare. E lei era laggiù. Come è riuscito a scappare da una cosa simile? La Città Vecchia è ancora isolata da un cordone di truppe; ci sono tre reggimenti dell’esercito nella città di Nio; arrestano ancora oggi scioperanti e sospetti a decine e centinaia al giorno. Come ha fatto ad arrivare qui?


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