— Non intendo abbandonare il Gruppo, Bedap.

Bedap sollevò la testa e disse dopo un attimo: — No, so che non intendi farlo.

— Bene. Andiamo a pranzo. Ho la pancia che borbotta: la senti, Pilun? Rrowr, rrowr!

— Ohp! — disse Pilun, in tono di comando. Shevek la afferrò e poi si raddrizzò, portandola sulla propria spalla. Dietro la sua testa e quella della bambina, l’unica scultura mobile appesa nella stanza oscillò piano. Era una grossa scultura, fatta di fili appiattiti, che, di lato, quasi scomparivano alla vista; avevano forma ovale, e questi ovali, di tempo in tempo, sparivano; ugualmente sparivano, in certe condizioni di luce, le sottili e trasparenti bolle di vetro che si muovevano nell’interno dei fili ovali e che formavano orbite ellissoidali intorno al centro comune, senza mai incontrarsi completamente, senza mai totalmente separarsi. Takver la chiamava Abitazione del Tempo.

Si recarono alla mensa di Pekesh, e attesero che la tabella indicasse una rinuncia, in modo da poter portare Bedap come ospite. Bedap si registrò presso la mensa, e questo suo atto lo cancellò dalla mensa in cui mangiava di solito: il sistema era coordinato da un calcolatore, sull’intera città. Era uno dei «processi omeostatici» altamente meccanizzati favoriti dai primi Coloni e che persistevano soltanto ad Abbenay. Come vari altri metodi meno sofisticati che venivano usati altrove, esso non funzionava mai perfettamente; c’erano carenze, eccessi e frustrazioni, ma niente di grave. Le rinunce alla mensa di Pekesh erano rare, poiché la sua cucina godeva la fama di essere la migliore di Abbenay e aveva una tradizione di grandi cuochi. Infine apparve un’apertura, ed essi entrarono. Due giovani che Bedap conosceva di vista e che erano vicini di domicilio di Shevek e Takver si unirono a loro al tavolo. Altri non vennero… o non vollero venire? Qual era l’ipotesi corretta? Non parve importare. Mangiarono un buon pasto e passarono piacevolmente il tempo chiacchierando tra loro. Ma ogni tanto Bedap provò l’impressione che intorno a loro ci fosse un cerchio di silenzio.

— Non so che cosa inventeranno ancora gli urrasiani — disse, e sebbene stesse parlando senza impegno, scoprì, con fastidio, di avere abbassato la voce. — Hanno chiesto di venire qui, e hanno chiesto a Shevek di andare da loro; quale sarà la loro prossima mossa?

— Non sapevo che avessero chiesto a Shevek di andare da loro — disse Takver, corrugando leggermente la fronte.

— Sì, lo sapevi — disse Shevek. — Quando mi hanno detto di avermi dato il premio, sai, il Seo Oen, mi hanno chiesto se potevo andare, ricordi? Per prendere il denaro del premio! — Shevek sorrise, radioso. Anche se c’era un cerchio di silenzio intorno a loro, egli non se ne preoccupava: era sempre stato solo.

— Vero. Lo sapevo. Soltanto, non mi era parsa una possibilità concreta. Da decadi parlate di suggerire alla riunione del CDP che qualcuno si rechi su Urras, tanto per sconvolgerli.

— Ed è quanto abbiamo finalmente fatto, oggi pomeriggio. Bedap mi ha indotto a dirlo.

— E ne sono rimasti sconvolti?

— Gli si sono rizzati i capelli, usciti gli occhi dalle orbite…

Takver rise. Pilun sedeva su un seggiolone accanto a Shevek e si esercitava i denti su un pezzo di pane di holum e la voce facendo versi. — O manieri bateri — proclamò, — abberi abberi babberi dab! — Shevek, sempre versatile, le rispose nella stessa vena. La conversazione degli adulti continuò senza molta attenzione e con interruzioni. Bedap non se la prese; da tempo aveva imparato che occorreva accettare Shevek con tutte le sue complicazioni, oppure lasciarlo perdere. La più silenziosa di tutti era Sedik.

Bedap rimase con loro ancora per un’ora, dopo il pasto, nella camera comune del domicilio, ch’era bella e spaziosa, e quando Sedik si alzò per uscire, si offrì di accompagnarla al dormitorio della scuola, che era sulla sua strada. A queste parole, accadde qualcosa, uno di quegli eventi o di quei segnali che risultano chiari soltanto ai membri della stessa famiglia; l’unica cosa che Bedap capì, fu che Shevek, senza mostrare fastidio e senza dir nulla, li accompagnò. Takver doveva andare a dare da mangiare a Pilun, che diventava sempre più rumorosa. Takver diede il bacio del saluto a Bedap, che si allontanò con Sedik e Shevek, chiacchierando con luì. Parlavano fitto, e non si accorsero di avere superato il centro di apprendimento. Tornarono indietro, e trovarono Sedik ferma davanti all’entrata del dormitorio. Era immobile, dritta e sottile, con il viso teso, nella debole luce della lampada stradale. Shevek rimase altrettanto immobile per un momento, poi si avvicinò a lei. — Che cosa è successo, Sedik?

La bambina rispose: — Shevek, posso rimanere nella camera per la notte?

— Certamente. Ma cos’è successo?

Il viso lungo, delicato, di Sedik tremò e parve frammentarsi. — Non gli piaccio, a quelli del dormitorio — disse, con la voce stridula per la tensione, ma ancor più morbida di prima.

— Non gli piaci? Che intendi dire?

Non si erano ancora toccati. Sedik gli rispose con disperato coraggio. — Perché non gli piace… non gli piace il Gruppo, e Bedap, e… e tu. Vi chiamano… La sorella grande della stanza, ha detto che voi… che noi siamo tutti tra… Ha detto che siamo dei traditori — e nel pronunciare la parola, la bambina sobbalzò come se fosse stata colpita da un proiettile; Shevek la prese fra le braccia. Sedik si tenne a lui con tutta la sua forza, piangendo con grandi singhiozzi. Era troppo vecchia, troppo alta perché Shevek la prendesse in braccio. Rimase fermo ad abbracciarla, accarezzandole i capelli. Alzò gli occhi al di sopra della testa della bambina e guardò Bedap. Anche i suoi occhi erano pieni di lacrime. Disse: — Tutto a posto, Bedap, vai pure.

Bedap non poteva fare altro che lasciarli, l’uomo e la bambina, in quell’unica intimità ch’egli non poteva condividere, la più dura e la più profonda, l’intimità del dolore. Il fatto di andarsene non gli diede alcun senso di sollievo o di fuga; invece, si sentì inutile, sminuito. «Ho trentanove anni» pensò, mentre si dirigeva al proprio domicilio, la stanza da cinque uomini in cui viveva in perfetta indipendenza. «Quaranta tra poche decadi. Che cosa ho fatto? Che cosa continuo a fare? Nulla. Mettermi in mezzo. Mettermi in mezzo nella vita degli altri perché non ne ho una mia. Non me ne sono mai dato il tempo. E il tempo mi sfuggirà, tutto d’un tratto, e io non avrò mai avuto… quello.» Si guardò alle spalle, nella strada lunga e tranquilla, dove le lampade formavano morbide pozze di luce nell’oscurità di vento, ma ormai si era allontanato troppo per vedere ancora il padre e la figlia, oppure essi se n’erano andati. Non avrebbe saputo dire cosa intendesse con «quello», sebbene fosse bravo con le parole; eppure sentiva di comprenderlo chiaramente, sentiva che tutta la sua speranza stava in quella comprensione, e che se voleva salvarsi doveva cambiare vita.

Quando Sedik si fu calmata abbastanza per lasciarlo, Shevek la lasciò a sedere sul primo scalino del dormitorio, ed entrò a dire alla guardiana che la bambina sarebbe rimasta con i genitori per la notte. La guardiana gli parlò con freddezza. Gli adulti che lavoravano nei dormitori dei bambini avevano una naturale tendenza a disapprovare le visite domiciliari notturne, poiché le trovavano negative; Shevek si disse che probabilmente era sbagliato voler vedere nella guardiana qualcosa di diverso da questa disapprovazione. I corridoi del centro d’apprendimento erano fortemente illuminati ed echeggiavano di rumori, suoni di strumenti musicali, voci di bambini. Erano i vecchi suoni, odori, ombre, echi dell’infanzia che Shevek ricordava, e con essi ricordò anche le paure. Le paure si dimenticano.

Uscì e ritornò a casa con Sedik, tenendole il braccio sulla spalla sottile. La bambina taceva, era ancora agitata. Disse bruscamente, quando giunsero al loro ingresso, nel domicilio principale di Pekesh: — So che non siete molto contenti, tu e Takver, di avermi con voi per la notte.


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