Hubbley mi lasciò alle mie amare forme fino a metà mattina. Quando aprì la porta notai che aveva un’espressione grave. — Signor Arlen, signore, mi è stato detto che lei vuole arrivare a un terminale e mettere i suoi amici di Huevos Verdes sulle nostre tracce.
Lo fissai con odio aperto dalla sedia a rotelle.
Egli sospirò e si sedette sul bordo della brandina, appoggiando le mani sulle magre ginocchia, tenendo il corpo chino in avanti in atteggiamento confidenziale. — È importante che "comprenda", figliolo. Contattare il nemico in tempo di guerra è tradimento. Ora, so che lei non è un soldato regolare, almeno per il momento, è più una specie di prigioniero di guerra, ma ugualmente…
— Sa bene che Francis Marion non ha mai parlato in quel modo, vero? — dissi brutalmente. — Questo genere di linguaggio data al massimo centocinquanta anni, viene dai film. È fasullo. Fasullo come tutta la tua guerra.
Egli non cambiò espressione. — Caspita, è ovvio che il generale Marion non parlasse in questo modo, signor Arlen. Pensa che non lo sappia? Ma è diverso da come parlano i miei soldati, è vecchio stile e non è né parlare da Mulo né da Vivo. È sufficiente. Non importa quanta verità esprime, finché ne esprime.
Mi fissò con occhi gentili e pazienti.
Dissi: — Mi permetta di andare in giro per il campo. Non imparerò le sue verità se me ne resto serrato in questa camera. Mi dia una guardia come ce l’ha il dottore.
Hubbley si sfregò il bozzo sul collo. — Be’, si può fare, immagino. Non che lei possa sopraffare nessuno, seduto su quella sedia.
Le forme nella mia mente cambiarono repentinamente. Rosso scuro, spruzzate di argento. La gente di Hubbley non effettuava controlli particolarmente approfonditi. Egli non si era reso conto del fatto che io avevo allenato la parte superiore del corpo con i migliori maestri di arti marziali che i soldi di Leisha avevano potuto procurare. Lei aveva voluto fornire uno sfogo alla mia rabbia giovanile.
Che cos’altro non sapeva? Leisha, incapace di alterare il mìo DNA non Insonne, aveva tuttavia fatto il possibile per me. I miei occhi avevano cornee impiantate con un ingrandimento bifocale a zoom: i muscoli della braccia mi erano stati potenziati. Probabilmente quelle cose rappresentavano abomini, crimini contro la comune umanità citata nella Costituzione.
Cercai di apparire mesto. — Posso avere Abigail come guardia?
Hubbley si mise a ridere. — Non le servirà a niente, figliolo. Abby sposerà Joncey fra un paio di mesi. Darà al bambino un vero papà. Abby tiene un sacco di pizzo da qualche parte per l’abito nuziale.
Vidi Abigail con gli stivaloni di gomma fino alla coscia e la camicia strappata che sparava con un lanciamissili contro l’aereo di salvataggio. Non riuscivo a immaginarla con l’abito da sposa. Mi venne quindi in mente che non riuscivo a immaginare nemmeno Miranda in abito da sposa.
Miranda. Avevo a malapena pensato a lei da quando era morta Leisha.
— Sa che le dico, però? — disse Hubbley — visto che smania tanto per una compagnia femminile, le assegnerò una donna come guardia. Ma, signor Arlen, signore…
— Sì?
I suoi occhi apparvero più grigi, più duri. — Deve tenere a mente che questa è una guerra, signore. E per quanto le siamo grati per l’aiuto che ci ha dato con i suoi concerti, è sacrificabile. Lo deve tenere a mente e basta.
Non risposi. Nel giro di un’altra ora la porta si aprì di nuovo ed entrò una donna. Era, doveva essere, la gemella di Campbell. Alta quasi due metri, muscolosa quasi quanto lui. I capelli color marrone-cacca le stavano appiccicati attorno a una faccia astiosa dalle mascelle sporgenti come quelle di Campbell.
— Io sono la guardia, io. — Aveva una voce stridula e seccata.
— Salve. Sono Drew Arlen. Tu sei…
— Peg. Comportati bene, tu. — Mi fissò con evidente disprezzo.
— Giusto — dissi io. — E quale combinazione naturale di geni ha prodotto te?
Il suo disprezzo non si approfondì, non oscillò. La vidi nella mente come un solido monolito, granitico, simile a una pietra tombale.
— Portami dove è il vostro caffè, Peg.
Lei afferrò la sedia a rotelle e la spinse sgraziatamente. Sotto la tuta verde le sporgevano i muscoli delle cosce. Mi superava in peso di almeno quindici chili: aveva un allungo migliore ed era in forma smagliante.
Vidi il corpo di Leisha, leggero e slanciato, accasciato contro l’albero di anona con due buchi rossi sulla fronte.
Il caffè era una grande stanza in cui convergevano svariati tunnel. C’erano tavolini, sedie e un olo-terminale del tipo più semplice adatto soltanto alla ricezione. Mostrava una gara di scooter. Nessuna catena alimentare, tuttavia molte persone stavano mangiando ciotole di stufato di soia. Mi fissarono con franchezza quando Peg mi fece entrare. Almeno una mezza dozzina di facce mostrò un’espressione chiaramente ostile.
Abigail e Joncey erano seduti a un tavolino distante. Lei stava effettivamente cucendo insieme teli di pizzo, a mano. Era come osservare qualcuno fare candele o scavare una buca con una pala. Abigail mi lanciò una sola occhiata e quindi mi ignorò.
Peg accostò la mia sedia a rotelle a un tavolino, mi portò una ciotola di stufato e si accomodò per vedere la corsa di scooter.
Guardai la corsa, osservando intanto tutto il resto tramite lo zoom nelle cornee. Il pizzo di Abby era coperto da un complesso disegno di piccoli rombi, tutti diversi gli uni dagli altri, come fiocchi di neve. Tagliò un rombo e lo mostrò ridendo a Joncey. Tre uomini stavano giocando a carte: quello di cui potevo vedere la mano aveva una coppia di re. Dopo un po’ dissi a Peg. — È così che passate le giornate? Contribuendo alla rivoluzione?
— Chiudi il becco, tu.
— Voglio vedere altre parti della tenuta. Hubbley ha detto che avrei potuto farlo se mi portavi tu.
— Di’ colonnello Hubbley, tu!
— Colonnello Hubbley, allora.
Afferrò la mia sedia con una tale violenza da farmi sbattere i denti e la spinse lungo il corridoio più vicino. — Ehi! Rallenta!
Lei rallentò fino a un insolente strisciare. Non mi misi a discutere. Cercai di memorizzare ogni cosa.
Non era facile. I tunnel apparivano tutti uguali: bianchi e privi di caratterizzazioni, nano-perfetti, punteggiati di porte bianche identiche, prive di segni e fatte di una lega resistente allo sporco. Cercai di tenere a mente pezzettini di cibo lasciati cadere, impronte di scarpe. In un’occasione vidi un piccolo rombo di pizzo mezzo impigliato sotto a una porta e seppi che Abigail doveva essere passata da quella parte. Peg mi spingeva come un robot, impassibile e instancabile. Stavo perdendo il conto di quello che avevo cercato di memorizzare.
Dopo tre ore passammo davanti a un robot pulitore che ramazzava le cose che io avevo utilizzato come contrassegni.
Durante l’intero giro vidi solamente due porte aperte. Una dava su un bagno comune. L’altra restò aperta solamente un istante, quindi si chiuse, permettendomi solo la più fugace delle occhiate su casse ad alta sicurezza, una fila dopo l’altra. Disgregatori di duragem? O qualche altro distruttore di genomi non umani che Jimmy Hubbley riteneva dovesse essere riversato sui suoi nemici?
— Che cos’era quello? — chiesi a Peg.
— Chiudi il becco, tu.
Un’ora dopo tornammo alle aree comuni. C’era ancora gente che pranzava. Peg mi spinse verso un tavolino vuoto e mi sbatté davanti un’altra ciotola di stufato. Non avevo fame.
Qualche minuto più tardi Jimmy Hubbley si sedette vicino a me. — Ebbene, figliolo, sarà rimasto soddisfatto del suo giro, spero.
— Oh, è stato fantastico — dissi io. — Ho visto ogni genere di contributo alla rivoluzione.
Si mise a ridere. — Oh, sta avvenendo, sul serio. Ma non riuscirà a provocarmi e a costringermi a mostrarle delle cose prima che io sia pronto. C’è tempo, c’è tempo.
— Non ha paura che i suoi soldati si facciano irrequieti a non far nulla così? Che cosa faceva il generale Marion con i suoi uomini fra una battaglia e l’altra? — Appoggiai il cucchiaio: lo odiavo troppo per riuscire anche solo a fingere di mangiare in sua presenza. Dio, come volevo un drink!