— Provamelo.
Esk ruotò su se stessa con un grido. Il fuoco le sprizzò dalla punta delle dita e attraversò la stanza, esplodendo con tanta forza da scaraventare all’intorno il mobilio. Una palla di livida luce verde crepitò sul focolare, attraversata da forme cangianti mentre vorticava sfrigolando sulle pietre, che si spaccarono e poi si sparsero all’intorno. Il parafuoco di ferro resistette bravamente per qualche momento prima di sciogliersi come cera, apparve un attimo come una macchia rossa nella palla di fuoco e quindi scomparve. Subito dopo la cuccuma fece la stessa fine.
Proprio quando sembrava che il caminetto li avrebbe seguiti, la vecchia pietra del focolare cedette e con un ultimo spruzzo la palla di fuoco sprofondò e sparì dalla vista.
Di tanto in tanto un crepitio o una nuvoletta di vapore segnalò il suo passaggio nel terreno. A parte questo, regnava il silenzio, l’alto silenzio sibilante che fa seguito a un rumore troppo intenso. Dopo la luce accecante di prima la stanza sembrò piombare nelle tenebre.
Alla fine la Nonnina strisciò fuori da dietro il tavolo e si avvicinò cautamente il più vicino possibile al buco, ancora circondato da una crosta di lava, poi si buttò indietro davanti a un altro getto di vapore bollente.
— Dicono che sotto alle Ramtop ci siano le miniere dei nani — osservò senza nesso apparente. — Povera me, quei poveretti avranno una bella sorpresa.
Stuzzicò il mucchietto di ferro che si andava raffreddando là dove prima c’era stata la cuccuma, e aggiunse: — Peccato per il parafuoco. Sopra c’erano scolpiti dei gufi, sai.
Si aggiustò con mano tremante i capelli bruciacchiati. — Credo che ci voglia una bella tazza di… una bella tazza di acqua fredda.
Esk sedeva contemplando sorpresa la propria mano.
— Quella era vera magia — disse alla fine. — E l’ho fatta io.
— Un tipo di vera magia — la corresse la Nonnina. — Non dimenticarlo. E neppure vorrai ripeterla tutto il tempo. Se hai in te questa magia, devi imparare a controllarla.
— Tu puoi insegnarmelo?
— Io? No!
— Come posso imparare se nessuno me lo insegnerà?
— Devi andare là dove ne sono capaci. La scuola dei maghi.
— Ma hai detto…
La vecchia si fermò nell’atto di riempire un boccale dal secchio dell’acqua.
— Sì, sì — scattò. — Non badare a ciò che ho detto o al senso comune o altro. Certe volte bisogna andare dove ti portano gli eventi, e suppongo che in un modo o nell’altro tu andrai alla scuola dei maghi.
Esk ci penso su.
— Vuoi dire che è il mio destino?
La Nonnina scrollò le spalle. — Qualcosa di simile. Probabilmente. Chissà?
Quella stessa notte, parecchio dopo avere messo a letto la bambina, la vecchia si mise il cappello in testa, accese una candela nuova, sparecchiò la tavola, ed estrasse una scatoletta di legno dal suo nascondiglio segreto nella dispensa. Dentro c’erano una bottiglia d’inchiostro, un’antiquata penna d’oca e dei fogli di carta.
Lei non si sentiva molto a suo agio davanti al mondo delle lettere. Aveva gli occhi strabuzzati, la punta della lingua in fuori, la fronte imperlata da goccioline di sudore. Ma la penna scorreva scricchiolando sulla pagina, con l’accompagnamento di tanto in tanto di un’imprecazione sottovoce come "accidenti" e "dannazione".
Ecco il testo della lettera, benché a questa versione manchino le gocce di cera, le macchie d’inchiostro, le cancellature, le chiazze umide dell’originale, nonché lo stile tutto sgrammaticato.
Al Mago Capo, Università Invisibile. Saluti. Io spero stai bene, ti mando una Escarrina Smith, lei ha la stoffa per diventare un mago ma quello che si può fare di lei non lo so lei lavora sodo si tiene pulita e conosce anche diverse arti della casa, manderò Soldi con lei Che tu possa vivere a lungo e finire i tuoi giorni in pace, E molto obbligata. Esmeralda Weatherwax (signorina) Strega.
La Nonnina alzò il foglio alla luce e lo esaminò con occhio critico. Era una buona lettera. Aveva ricavato "diverse" dall’Almanacco che leggeva ogni sera. E che prediceva sempre "diverse sciagure" e "diversa malasorte". Anche se non era proprio sicura del suo significato, restava pur sempre una parola maledettamente buona.
Sigillò la lettera con la cera della candela e la mise sulla dispensa. L’avrebbe data da trasmettere al corriere quando sarebbe andata la mattina dopo al villaggio per comperare un’altra cuccuma.
L’indomani la Nonnina scelse con una certa cura cosa indossare e si decise per un vestito nero con un motivo di rane e pipistrelli, una grande cappa di velluto (o per lo meno di quello che può sembrare velluto dopo essere stato indossato invariabilmente per trenta anni) e il capello a cono del suo rango, fissato da spilloni.
La loro prima visita fu per lo scalpellino a cui ordinare la pietra del focolare da sostituire. Poi andarono dal fabbro.
L’incontro fu lungo e tempestoso. Esk uscì nell’orto e salì al suo vecchio posto sul melo. Dalla casa le giungevano gli urli del padre, i lamenti della madre e lunghe pause di silenzio. Il che voleva dire che Nonnina Weatherwax parlava piano nella voce che Esk definiva "è proprio così". La vecchia aveva a volte un modo di parlare piatto e misurato. Il genere di voce che probabilmente il Creatore aveva usato. Che in essa ci fosse della magia o soltanto "menteologia", di sicuro escludeva ogni possibilità di discussione. Qualunque fosse l’argomento, stabiliva che così dovevano andare le cose.
Un vento leggero faceva ondeggiare l’albero. Seduta sul ramo, Esk dondolava pigramente le gambe.
Pensava ai maghi. Loro non venivano spesso a Cattivo Somaro, ma di loro si raccontava una quantità di storie. Erano saggi, ricordava la bambina, e di solito molto vecchi e compivano magie possenti, complesse e misteriose e quasi tutti avevano la barba. Erano anche, senza eccezione, uomini.
Con le streghe lei si trovava su terreno più sicuro, perché era andata con la Nonnina a visitare un paio di villaggi di streghe più in là sulle colline. E comunque le streghe occupavano un posto importante nel folclore delle Ramtop. Le streghe, ricordava, erano astute, di solito molto vecchie o almeno si sforzavano di sembrarlo e facevano dei sortilegi un po’ sospetti, casarecci e organici, e alcune di loro avevano la barba. Erano anche, senza eccezione, donne.
In tutto questo c’era un qualche problema fondamentale che lei era incapace di risolvere. Perché…
Cern e Gulta vennero di corsa giù per il sentiero e si fermarono sotto l’albero urtandosi e spingendosi. Alzarono gli occhi a guardare la sorella con un misto di ammirazione e di disprezzo. Streghe e maghi erano oggetto di timore reverenziale, non così una sorella. Sapere che la propria sorella stava imparando a diventare una strega, svalutava in qualche modo l’intera categoria.
— Tu non puoi fare veramente degli incantesimi — disse Cern. — È vero?
— Naturale che non puoi — disse Gulta. — Che cos’è quel bastone?
Esk aveva lasciata la verga appoggiata al melo. Cern la toccò con precauzione.
— Non voglio che la tocchi — protestò in fretta Esk. — Per piacere. È mia.
Normalmente Cern aveva la sensibilità di un elefante ma, con sua grande sorpresa, la sua mano si fermò a metà gesto.
— Comunque non ne avevo voglia — borbottò, per nascondere la sua confusione. — È soltanto un vecchio bastone.
— È vero che sai fare gli incantesimi? — chiese Gulta. — Ho sentito la Nonnina che lo diceva.
— Stavamo ascoltando alla porta — aggiunse il fratello.
— Siete voi che avete detto che non sono capace — rispose Esk con fare disinvolto.
— Be’, puoi o non puoi? — ribatté Gulta, arrossendo.
— Forse.
— Non puoi!
Esk abbassò gli occhi a guardarlo. Amava i fratelli, quando se ne ricordava (più che altro per dovere), sebbene generalmente li ricordasse come una serie di rumori fragorosi in pantaloni. Ma nel modo di fissarla di Gulta c’era qualcosa di estremamente sgradevole, come se lei lo avesse personalmente insultato.