Incollò l’etichetta sulla fiala che avvolse con cura in un pezzo di carta.

Ora.

— C’è un altro modo di entrare nell’Università. — Rivolse di sottecchi un’occhiata a Esk, che stava svogliatamente pestando delle erbe in un mortaio. — Un modo da strega.

Esk alzò gli occhi. La Nonnina sorrise tra sé e si mise a compilare un’altra etichetta. Per lei, scrivere etichette era sempre la parte più difficile della magia.

— Ma non mi aspetto che ti interessi — continuò. — Non è molto sensazionale.

— Hanno riso di me — mormorò la bambina.

— Già. Lo hai detto. Così non desideri riprovarci. Lo capisco benissimo.

Seguì un silenzio rotto soltanto dallo scricchiolio della penna della Nonnina.

Alla fine Esk disse: — E questo modo…

— Uhm?

— Mi farà entrare all’Università?

— Naturale — affermò altera la vecchia. — Ho detto che avrei trovato un modo, no? Anzi, un modo eccellente. Non dovrai annoiarti con le lezioni, potrai girare dappertutto, nessuno ti noterà… in realtà sarai invisibile e… be’, sei veramente capace di fare le pulizie. Ma di certo, dopo tutte quelle risate, la cosa non ti interessa? Vero?

— Prego, un’altra tazza di tè, signora Weatherwax? — le offrì la signora Whitlow.

— Tre zollette di zucchero, per piacere — rispose la Nonnina.

L’altra spinse la tazza verso di lei. Sebbene aspettasse con impazienza le visite della Nonnina, le trovava un po’ dispendiose quanto a zucchero. Quando c’era in giro la vecchia, le zollette non duravano mai a lungo.

— Fa molto male alla figura — osservò. — E ai denti, così dicono.

— Non ho mai avuto una figura di cui preoccuparmi e i miei denti ci pensano da sé. — Era vero, purtroppo. La Nonnina era afflitta da una dentatura sanissima, uno svantaggio per una strega, a suo giudizio. Invidiava di cuore Nanny Annaple, la strega che viveva sulla montagna, la quale era riuscita a perdere tutti i denti quando aveva soltanto venti anni, e godeva così della credibilità dovuta a una vecchia. Se questo ti costringeva a mangiare un sacco di minestra, ti procurava pure un sacco di rispetto. E poi c’erano le verruche. Senza sforzarsi, Nanny aveva una faccia somigliante a una manciata di bitorzoli. Mentre la Nonnina aveva provato ogni mezzo buono per farsi venire le verruche e non era riuscita nemmeno a ottenere il porro obbligatorio sul naso. Certe streghe avevano tutte le fortune.

Si accorse che la governante stava parlando con voce flautata, e fece: — Uhm?

— Ho detto — riprese la signora Whitlow — che la giovane Eskarina è un vero tesoro. Proprio un tesoruccio. Tiene i pavimenti immacolati, immacolati. Nessun compito è troppo grande. Le ho detto ieri, le ho detto: "quella tua scopa potrebbe avere una vita propria" e sai che cosa ha risposto?

— Non posso nemmeno immaginarlo — disse debolmente la Nonnina.

— Ha detto che la polvere ne aveva paura! Ci crederesti?

— Sì.

La signora Whitlow spinse verso di lei la tazza di tè con un sorriso imbarazzato.

Dentro di sé, la Nonnina sospirò e si mise a scrutare nelle profondità non troppo pulite del futuro. Decisamente, cominciava a essere a corto di immaginazione.

La scopa si spostava rapida per il corridoio alzando una grande nuvola di polvere che, se osservata attentamente, pareva essere risucchiata nel manico. A guardare ancora meglio, si sarebbe notato che esso presentava degli strani segni, non delle vere e proprie incisioni, che stranamente cambiavano forma sotto gli occhi.

Ma nessuno guardava. Seduta nella strombatura di una delle alte finestre, Esk contemplava la città. Era più arrabbiata del solito, così la scopa attaccava la polvere con insolito vigore. I ragni facevano dei balzi disperati sulle loro otto zampe in cerca di un rifugio, via via che ragnatele ancestrali sparivano nel vuoto. Sui muri i topi si stringevano l’uno all’altro, puntando le zampe dentro le loro tane. I tarli cercavano d’infilarsi nelle travi del soffitto mentre erano tirati indietro, inesorabilmente, lungo le loro gallerie.

— Sei veramente capace di fare le pulizie — esclamò ad alta voce. — Uh!

Doveva riconoscere, però, che c’erano dei vantaggi. Il cibo era semplice ma abbondante, e disponeva di una stanza sua da qualche parte sottotetto. E per lei era un lusso, perché poteva restare a letto fino alle cinque del mattino, cioè praticamente mezzogiorno per il modo di pensare della Nonnina. Il lavoro poi non era pesante. Lei cominciava a spazzare fino a che la verga non capiva ciò che ci si aspettava da lei, e dopo lei poteva divertirsi finché non era terminato. Se entrava qualcuno, la verga immediatamente si appoggiava al muro con aria distratta.

Ma dell’arte della magia Esk non apprendeva nulla. Poteva entrare nelle classi vuote ed esaminare i diagrammi tracciati con il gesso sulla lavagna e, nelle classi più avanzate, sul pavimento. Ma le forme non avevano per lei alcun significato. Ed erano sgradevoli.

A Esk ricordavano le figure nel libro di Simon. Sembravano vive.

Guardando i tetti di Ankh-Morpork, andava ragionando tra sé e sé: La scrittura erano solo le parole pronunciate dalle persone, compresse tra fogli di carta finché erano fossilizzate. (Nel mondo-Disco i fossili erano ben noti, grandi conchiglie a spirale e creature malformate rimaste dai tempi in cui il Creatore non aveva ancora deciso ciò che voleva fare e, diciamo, si trastullava pigramente con il Pleistocene). E le parole pronunciate dalle persone erano soltanto ombre delle cose reali. Ma certe cose erano troppo grosse per essere davvero intrappolate nelle parole e anche le parole erano troppo potenti per essere completamente domate dalla scrittura.

Così, ne conseguiva che certi scritti cercavano di trasformarsi in cose. A questo punto, i pensieri di Esk si facevano confusi. Ma era certa che le parole realmente magiche erano quelle che battevano con forza nel tentativo di sfuggire e diventare reali.

Il loro aspetto non era precisamente gradevole.

Ma poi si ricordò del giorno precedente.

Era successo un fatto piuttosto strano. Le classi dell’Università erano state progettate a forma d’imbuto: le file dei sedili (resi lucidi dai deretani dei più grandi maghi del Disco) guardavano giù a una zona centrale dove c’erano un banco da lavoro, un paio di lavagne e sul pavimento uno spazio abbastanza grande da contenere un ottogramma educativo di buone proporzioni. Lo spazio, sotto le fila dei sedili, era vuoto ed Esk lo aveva trovato un eccellente posto di osservazione, dal quale poteva guardare l’insegnante sbirciando attraverso le calzature a punta degli apprendisti maghi. Stare lì era molto riposante, mentre su di lei aleggiava la voce monotona dei conferenzieri, simile al ronzio delle api leggermente ebbre nello speciale giardino delle erbe della Nonnina. Non si svolgeva mai un esercizio di magia pratica, ma sempre soltanto parole. Pareva che ai maghi le parole piacessero molto.

Ma il giorno prima era stato differente. Esk sedeva nella semioscurità polverosa e si sforzava di fare almeno una magia molto semplice. In quel momento aveva udito la porta aprirsi e un rumore di passi sul pavimento. Già questo era sorprendente. Esk conosceva gli orari e gli studenti del Secondo Anno, che normalmente occupavano quella stanza, si trovavano giù in palestra con Jeophal il Vivace per il corso di Smaterializzazione per Principianti. (Gli studenti di magia non praticavano gli esercizi fisici; la palestra era un vasto locale, dalle pareti foderate di piombo e il pavimento di legno di sorbo selvatico, dove i neofiti potevano applicarsi alla Grande magia senza sbilanciare gravemente l’equilibrio dell’universo, anche se talvolta sbilanciavano gravemente il loro. La magia non aveva pietà degli inetti. Certi studenti imbranati erano abbastanza fortunati da uscire con le proprie gambe, altri erano portati via in bottiglia).


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