Dopo quarantun metri emersi nell’aria. Sulle prime ebbi paura che si trattasse solo di un altro crepaccio, ma poi usai la torcia laser e il raggio mostrò una caverna più lunga e più larga di quella dove c’era la zattera. Avevamo discusso questa possibilità e deciso che non avremmo fatto esplodere le cariche, se avessi visto la fine di un’eventuale seconda caverna; ma quando abbassai il raggio della torcia per seguire il nero corso d’acqua, illuminando anche lì nebbia e stalattiti, vidi che il fiume, largo in quel punto circa trenta metri, faceva una curva e scompariva alcune centinaia di metri più a valle. Anche qui, come nell’altra caverna, non c’erano rive né tunnel visibili, ma almeno il fiume continuava a scorrere.

Avrei voluto vedere che cosa faceva il fiume al di là della curva, ma non avevo né la corda né il calore corporeo necessari per nuotare fin lì, guardare e tornare indietro vivo. «Riportami indietro!» ansimai.

Per i due minuti seguenti rimasi appeso alla fune (o cercai di restare appeso: non riuscivo più a usare le mani) mentre l’androide lottava contro la terribile corrente e mi tirava, fermandosi di tanto in tanto, quando mi tenevo a galla sulla schiena e inalavo la gelida aria dei crepacci. Poi la corsa ricominciava.

Se nell’acqua ci fosse stato A. Bettik (o anche solo la bambina) e avessi dovuto tirare io la fune, non sarei riuscito a tirare né l’uno né l’altra in un tempo neppure quattro volte superiore a quello che l’androide impiegò per tirare fuori me. A. Bettik era robusto, lo sapevo, ma non certo un superuomo, non possedeva una miracolosa forza androide, eppure quel giorno rivelò una forza sovrumana. Posso solo immaginare le riserve d’energia a cui attinse per tirarmi sulla zattera così rapidamente. Lo aiutai come potevo, tagliandomi le mani nel tentativo di fare leva contro il soffitto di ghiaccio e di tenere lontano le stalattiti più acuminate, scalciando senza molta forza nella corrente.

Quando con la testa sbucai di nuovo fuor d’acqua e vidi l’alone di lanterna e le sagome dei miei due compagni protese verso di me, non avevo la forza d’alzare le braccia né di agevolarli, mentre mi tiravano di peso sulla zattera. A. Bettik mi prese per le ascelle e mi sollevò gentilmente dall’acqua. Aenea m’afferrò per le gambe gocciolanti e insieme mi portarono verso prua. Nella mia confusione mentale ricordai la chiesa cattolica presso la quale a volte ci fermavamo nel villaggio di Latmos, nella palude settentrionale, dove compravamo cibo e semplici provviste da pastori, e uno dei grandi dipinti religiosi sulla parete sud di quella chiesa: Cristo deposto dalla croce, le braccia di uno dei discepoli sotto le ascelle, i piedi feriti sorretti dalla Vergine.

"Non montarti la testa" mi disse una vocina non invitata, facendosi largo nella nebbia che m’avvolgeva la mente. Parlava come Aenea.

Mi trasportarono nella tenda incrostata di brina, dove avevano preparato la termocoperta, sopra una pila di due sacchi a pelo e un sottile stuoino. Il termocubo brillava accanto a quel nido. A. Bettik mi tolse di dosso la biancheria zuppa d’acqua, la sacca con i razzi e la ricetrasmittente. Mi levò dal polso la torcia laser e la mise nel mio zaino; m’infilò nel sacco a pelo, m’avvolse nella termocoperta e aprì un medipac. Mi applicò appiccicosi contatti biomonitor sul torace, sull’interno delle cosce, sul polso sinistro e sulla tempia; guardò un attimo i diagrammi e poi, come concordato, m’iniettò una unità di adrenonitrotalina.

"Sarai già stufo di tirarmi a secco" avrei voluto dirgli; ma le mascelle e la lingua e l’apparato vocale non mi soccorsero. Ero talmente gelato da non tremare nemmeno. La consapevolezza era un filo sottile che mi collegava alla luce e ondeggiava nel vento gelido che soffiava dentro di me.

A. Bettik si chinò più vicino. — Signor Endymion, le cariche sono sistemate?

Riuscii a rispondere con un cenno. Non potevo fare altro: e anche quel semplice cenno fu come muovere una goffa marionetta.

Aenea s’inginocchiò accanto a me. Disse ad A. Bettik: — Lo tengo d’occhio io. Tu portaci fuori di qui.

L’androide lasciò la tenda per allontanare la zattera dalla parete di ghiaccio e spingerla a monte. Dopo l’energia che aveva speso per vincere la corrente e tirarmi a bordo, non riuscivo a credere che trovasse ancora la forza di spingere a monte l’intera zattera per la distanza necessaria.

Cominciammo a muoverci. Dall’apertura della tenda vedevo la lanterna brillare nella nebbia e il lontano soffitto. La nebbia e le stalattiti di ghiaccio si muovevano lentamente attraverso il piccolo triangolo di riferimento: mi pareva di scrutare da un foro isoscele il nono girone dell’inferno dantesco.

Aenea sorvegliava i monitor del semplice medipac. — Raul… Raul… — mormorò.

La termocoperta tratteneva il calore prodotto dal mio corpo, ma mi sentivo come se il calore prodotto fosse zero. Le ossa mi dolevano per il gelo, ma le terminazioni nervose, gelate, non trasmettevano il dolore. Ero molto, molto assonnato.

Aenea mi svegliò a scossoni. — Stai sveglio, maledizione!

"Ci proverò" le risposi col pensiero. Era una bugia, lo sapevo. Volevo solo dormire.

— A. Bettik! — gridò Aenea e mi resi conto vagamente che l’androide entrava nella tenda e consultava il medipac. Le parole dei due erano per me un remoto ronzio privo di significato.

Ero lontano, lontanissimo, quando sentii confusamente un corpo accanto al mio. A. Bettik era andato di nuovo a spingere controcorrente la zattera appesantita dalla brina. La piccola Aenea era strisciata accanto a me sotto la termocoperta e nel sacco a pelo. All’inizio non mi accorsi se il calore del suo magro corpo attraversava gli strati di ghiaccio che mi avevano invaso, ma ero consapevole del suo respiro, dei suoi gomiti appuntiti e delle sue ginocchia, della sua intrusione nello spazio che mi racchiudeva.

"No, no" pensai, rivolgendomi a lei. "Sono io il protettore… l’uomo forte, ingaggiato per salvarti." La gelida sonnolenza non mi consentiva di parlare.

Non ricordo se mi circondò con le braccia. So d’avere avuto la stessa reazione di un tronco congelato, la stessa ricettività di una delle stalattiti che si muovevano nel mio campo visivo triangolare, illuminate dal basso dal bagliore della lanterna e con la parte superiore perduta come la mia mente nel buio e nella nebbia.

Alla fine cominciai a sentire un po’ del calore emanato dal suo corpicino. Avevo una percezione confusa del calore, ma la pelle cominciò a formicolarmi: aghi di dolore, dove il calore passava dalla sua pelle alla mia. Se avessi potuto parlare, le avrei detto di scostarsi, così avrei potuto sonnecchiare nell’insensibilità.

Qualche tempo dopo… potevano essere trascorsi quindici minuti o due ore… A. Bettik tornò nella tenda. Ero abbastanza cosciente da capire che aveva seguito il nostro piano: "ancorare" la zattera, mediante le pertiche e il timone, nella strettoia a monte del fiume, sotto la parte visibile dell’arcata del teleporter. Secondo la nostra teoria, al momento dell’esplosione l’arcata metallica ci avrebbe forse protetti dalla valanga e dalla cascata di ghiaccio.

"Fai esplodere le cariche" volevo dirgli. Ma l’androide, invece di inviare il segnale in codice, si spogliò, restando con quei suoi buffi calzoncini gialli tropicali, e strisciò sotto la termocoperta, con la bambina e me.

La situazione potrebbe sembrare comica (forse lo sembrerà davvero, a chi leggerà queste righe) ma niente in vita mia mi ha profondamente commosso come quel gesto: la disponibilità dei miei due compagni di viaggio a condividere con me il loro calore. Neppure la coraggiosa e temeraria impresa di salvarmi dall’oceano violaceo mi aveva toccato fino a quel punto. Restammo lì distesi… Aenea alla mia sinistra, col braccio intorno a me; A. Bettik alla mia destra, col corpo rannicchiato per ripararmi dal freddo che filtrava dall’angolo della termocoperta. Tra qualche minuto avrei pianto per il dolore causato dal ritorno della circolazione del sangue, per la sofferenza della carne che si scongelava; ma in quel momento piansi per l’intimo dono del loro calore, mentre il tepore vitale fluiva in me dalla bambina e dall’uomo dalla pelle azzurra, fluiva in me dal loro sangue e dalla loro carne.


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