La profonda ferita al braccio non aveva reciso tendini, come avevo temuto, ma muscoli e nervi, tanto che il robochirurgo vi aveva lavorato durante la seconda e la terza operazione per liberarmi dal fungo. Poiché al nostro arrivo nell’ospedale l’energia elettrica non mancava, il chirurgo al silicio aveva preso l’iniziativa di far crescere nel serbatoio d’organi situato nelle cantine i nervi di ricambio occorrenti. L’ottavo giorno, mentre Aenea sedeva al mio capezzale e mi raccontava come il robochirurgo avesse continuato a chiedere consiglio e autorizzazione ai soprastanti umani, riuscii perfino a ridere quando lei disse che il "dottor Bettik" aveva autorizzato ogni operazione critica, trapianto e terapia.

La gamba che il variopinto squalo aveva cercato di tranciarmi con un morso si rivelò la parte più dolorosa della cura. Eliminato il fungo dalla zona lacerata dai denti dello squalo, mi vennero trapiantati, strato dopo strato, tessuti muscolari e pelle. Faceva un male d’inferno. Passato il dolore, sopravvenne il prurito. Nella seconda settimana di confino nell’ospedale, entrai in crisi per la mancanza di ultramorfina e presi in serio esame la possibilità di puntare la rivoltella su Aenea o sull’androide e pretendere la droga, anche se in realtà non credevo che l’una o l’altro avrebbero ceduto alla minaccia e mi avrebbero dato sollievo dalla crisi d’astinenza e dall’infernale prurito. Comunque non avevo più la rivoltella, finita nel violaceo mare senza fondo.

L’ottavo giorno, quando potei mettermi a sedere nel letto e mangiare davvero (semplice cibo d’ospedale, replicato in vasca) parlai con Aenea del mio breve lavoro come Eroe. — L’ultima notte su Hyperion mi ubriacai con il vecchio poeta e gli promisi che in questo viaggio avrei fatto certe cose — dissi.

— Quali? — domandò Aenea, tuffando il cucchiaio nel mio piatto di gelatina verdastra.

— Oh, niente d’eccezionale — risposi. — Proteggerti, riportarti a casa, trovare la Vecchia Terra e rimetterla al suo posto in modo che lui potesse rivederla prima di morire…

Aenea interruppe l’assaggio della gelatina. Inarcò le sopracciglia. — Ti ha detto di riportare al suo posto la Vecchia Terra? Interessante.

— Non è tutto. Strada facendo, avrei dovuto parlare con gli Ouster, distruggere la Pax, detronizzare la Chiesa e… ripeto le sue esatte parole… scoprire che cazzo trama il TecnoNucleo e impedire che lo realizzi.

Aenea posò il cucchiaio e col mio tovagliolo si pulì le labbra. — È tutto?

— Non proprio — dissi, lasciandomi ricadere sui guanciali. — Voleva pure che impedissi allo Shrike di nuocere a te e di distruggere la razza umana.

Aenea annuì. — È tutto?

Con la sinistra, la mano buona, mi strofinai la fronte sudata. — Mi pare. Comunque, è tutto ciò che ricordo. Ero ubriaco, te l’ho detto. — La guardai. — Come me la cavo, con l’elenco?

Aenea fece quel suo caratteristico gesto. — Non male. Tieni presente che abbiamo iniziato solo da qualche mese standard… meno di tre mesi, a conti fatti.

— Già — replicai, guardando dalla finestra i bassi raggi di sole che colpivano l’alto edificio di adobe di fronte all’ospedale. Al di là della città, vedevo le alture rocciose ardere di rosso per la luce della sera. — Già — ripetei, con voce prosciugata d’ogni energia e divertimento — me la cavo alla grande. — Sospirai e spinsi più in là il vassoio con la cena. — Non capisco una cosa: anche se c’era una gran confusione, come mai il loro radar non ha rilevato la zattera, quando eravamo vicinissimi?

— A. Bettik l’ha fracassato con un colpo — spiegò Aenea, riprendendo a mangiare la gelatina verdastra.

— Cosa?

— A. Bettik l’ha fracassato. Il riflettore parabolico. Con la tua carabina al plasma. — Terminò il pastone verdastro e pulì il cucchiaio. In quell’ultima settimana era stata infermiera, dottoressa, cuoca e lavapiatti.

— Mi pareva che non potesse sparare alle persone.

— Non può, infatti — disse Aenea, togliendo dal letto il vassoio e posandolo sul cassettone. — Gliel’ho domandato. Ha risposto che nessuno gli proibiva di sparare a tutti i riflettori parabolici che voleva. Così ha sparato. Poi abbiamo stabilito la tua posizione e ci siamo tuffati per salvarti.

— Era un tiro di tre o quattro chilometri, da una zattera in balia delle onde. Quante pulsoscariche ha sparato?

— Una — rispose Aenea. Guardava i diagrammi sul monitor sopra la mia testa.

Mandai un fischio sommesso. — Spero che non si arrabbi mai con me. Anche da distante.

— Se non diventi un riflettore parabolico, non hai di che preoccuparti — disse Aenea, rimboccandomi le lenzuola.

— Adesso dov’è?

Aenea si accostò alla finestra e indicò l’est. — Ha trovato un VEM con piena carica e controlla i kibbutz dalle parti del Grande Mare Salato.

— Gli altri erano deserti?

— Tutti. Gli abitanti non hanno lasciato nemmeno un cane, un gatto, un cavallo o uno scoiattolo domestico.

Capii che non scherzava. Avevamo parlato della faccenda… quando le comunità fuggono di corsa, o quando sono colpite da un disastro, spesso abbandonano gli animali domestici. I branchi di cani inselvatichiti erano stati un guaio, durante la rivolta nell’Artiglio Meridionale, su Aquila. La Guardia Nazionale aveva dovuto sparare a vista agli ex animali domestici.

— Significa che hanno avuto il tempo di portarli con sé — commentai.

Aenea si girò verso di me e incrociò le braccia. — Lasciando invece qui i vestiti? E i computer, i comlog, i diari privati, le olografie di famiglia… tutte le cianfrusaglie personali?

— E in quella roba non c’è traccia dell’accaduto? Nessuna ultima annotazione sui diari? Nessuna registrazione di telecamera a circuito chiuso? Nessun frenetico messaggio dell’ultimo minuto nei comlog?

— No. Sulle prime ero riluttante a curiosare nei comlog personali. Ma ormai li ho ascoltati decine di volte. Nell’ultima settimana c’erano le solite notizie di combattimenti nelle vicinanze. La Grande Muraglia distava meno di un anno luce e le navi della Pax riempivano il sistema. Non scendevano spesso sul pianeta, ma era evidente che alla fine Hebron avrebbe dovuto entrare nel Protettorato della Pax. Poi ci sono state le ultime trasmissioni per comunicare che gli Ouster erano penetrati nelle linee… poi più niente. Noi pensiamo che la Pax abbia fatto evacuare tutta la popolazione e che poi siano sopraggiunti gli Ouster, ma nei notiziari non ci sono accenni all’evacuazione; neppure nei computer, né da qualsiasi parte. Pare che tutti siano semplicemente svaniti. — Si strofinò le braccia. — Ho alcuni dischi dei notiziari, se vuoi vederli.

— Dopo, forse. — Ero molto stanco.

— A. Bettik tornerà domattina — disse Aenea, tirandomi la coperta fin sotto il mento. Il sole era tramontato, ma le alture ardevano, alla lettera, di luce immagazzinata. Era l’effetto-crepuscolo delle pietre di quel mondo, un effetto che non mi sarei mai stancato di guardare. Ma al momento non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

— Hai la doppietta? — borbottai. — La carabina al plasma? Bettik non c’è… qui da sola…

— Sono sulla zattera — disse Aenea. — Ora dormi.

Il primo giorno in cui ero pienamente cosciente cercai di ringraziare Aenea e A. Bettik per avermi salvato. Loro si schermirono.

— Come m’avete trovato? — domandai.

— Non è stato difficile — rispose Aenea. — Hai lasciato aperto il microfono, che ha continuato a funzionare finché il tenente della Pax non ti ha colpito, guastando la ricetrasmittente. Abbiamo ascoltato tutto. E col binocolo riuscivamo a vederti.

— Non dovevate lasciare la zattera tutt’e due. Troppo pericoloso.

— Non eccessivamente, signor Endymion — disse A. Bettik. — Oltre a preparare l’ancora galleggiante che ha rallentato notevolmente la corsa della zattera, la signorina Aenea ha pensato di gettare in acqua un piccolo tronco legato con una fune, rimorchiato a un centinaio di metri. Eravamo sicuri che, se non avessimo raggiunto la zattera, avremmo potuto arrivare facilmente con lei alla fune, prima che fosse fuori portata. E gli eventi ci hanno dato ragione.


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