Allora perché detesto la mia vita?
Addestrarsi con l’orda e combattere in sala di battaglia era divertente. Gli dava soddisfazione istruire i ragazzi del suo branco, e loro lo seguivano lealmente. Aveva la stima di tutti, e negli allenamenti serali lo ascoltavano quasi con deferenza. I comandanti studiavano le sue tecniche. Soldati di altre orde, a mensa, si avvicinavano al suo tavolo e chiedevano il permesso di sedersi solo per ascoltarlo parlare. Perfino gli insegnanti erano rispettosi con lui.
Si vedeva così dannatamente rispettato che avrebbe voluto urlare.
Osservava i ragazzini appena arruolati nelle varie orde, ancora freschi dei loro ricordi di casa; guardava i loro giochi, il modo in cui si facevano beffe dei comandanti quando essi non erano nelle vicinanze. Vedeva il cameratismo dei ragazzi ormai legati da anni di vita in comune lì alla Scuola di Guerra, che rivangavano battaglie ormai vecchie e nomi di soldati e comandanti da tempo giunti al termine del corso.
Ma con i suoi vecchi amici non c’erano giochi di quel genere, né risate, né tempo da dedicare ai ricordi. Soltanto lavoro. Soltanto tattica e strategia, ed eccitazione durante le battaglie, ma niente al di là di questo. E una sera, al termine degli allenamenti, la cosa lo colpì più di quel che aveva creduto. Stava discutendo con Alai certi particolari della manovra negli spazi aperti, quando Shen si avvicinò ad ascoltare. Per qualche minuto il ragazzo non disse nulla, poi una frase lo fece ridacchiare; d’improvviso afferrò Alai per le spalle e gridò: — Quattro-Tre-Nova! — Anche Alai scoppiò a ridere, e per un poco Ender li ascoltò rammentarsi l’un l’altro la battaglia dove quella manovra era stata fin troppo reale, quando avevano aggirato i ragazzi più anziani e poi…
D’un tratto i due ricordarono che lì c’era anche lui. — Scusa, Ender — disse Shen.
Scusa. Per che cosa? Per essere amici? — Quel giorno c’ero anch’io, lo sai — disse Ender.
E i due gli chiesero ancora scusa. Di nuovo al lavoro. Di nuovo al rispetto. Così Ender capì che ai suoi compagni non era venuto in mente di includerlo nelle loro risate, nella loro amicizia.
E come avrebbero potuto pensare che io ne ero parte? Ho forse riso? Ho rivangato episodi? Me ne sono rimasto lì a guardare, come un insegnante della Scuola. È già a questo modo che mi vedono. Insegnante. Soldato leggendario. Non come uno di loro. Non come uno che hai abbracciato per sussurrargli «salaam» all’orecchio. Questo è durato finché Ender sembrava ancora una vittima, ancora un bambino vulnerabile.
Adesso capeggiava una classifica, era un esperto. Ed era completamente, inevitabilmente solo.
Compiangi pure te stesso, Ender. Quella sera, disteso sulla cuccetta, lasciò che le sue dita scrivessero sul banco: POVERO ENDER. Poi rise di quelle parole e le cancellò. Non c’è un ragazzo o una ragazza qui a scuola che non vorrebbero essere al mio posto.
Chiamò sullo schermo la partita mentale. Come aveva fatto altre volte s’incamminò attraverso il villaggio che gli gnomi avevano edificato entro il collinoso scheletro del Gigante. Era facile costruire strani muri distorti seguendo la curvatura delle costole, aprendo finestre nei varchi fra esse. Il Torace era stato suddiviso in piccole abitazioni fissate a quelle travature ossee. L’anfiteatro per le riunioni era scavato a gradini nella coppa delle ossa iliache, e fra le gambe del Gigante c’erano cortili ed orti. Ender non aveva mai saputo a cosa mirassero gli gnomi con le loro attività, ma nel vederlo passare lungo il villaggio non lo avevano mai aggredito e in cambio lui li lasciava in pace.
Scavalcò l’osso pubico all’estremità dell’anfiteatro e si avviò fra gli orti. C’erano dei piccoli pony al pascolo, e nel vederlo scapparono. Lui non li inseguì. Non capiva più quale fosse il funzionamento della partita. Ai vecchi tempi, quando per primo aveva raggiunto la Fine del Mondo, tutto era combattimenti o enigmi da risolvere: sconfiggi l’avversario prima che lui uccida te, o escogita uno stratagemma per superare l’ostacolo. Adesso invece nessuno lo attaccava, non c’era da battersi, e dovunque andasse non si trovava davanti nessun ostacolo.
Salvo che, naturalmente, nella stanza del castello oltre la Fine del Mondo. Quello era rimasto l’unico luogo pericoloso. E Ender, benché avesse più volte giurato di non farlo più, continuava a ritornare là, continuava ad uccidere il serpente, e a guardare in faccia suo fratello. E ogni volta, qualunque azione intraprendesse, era morto lì dentro.
Neppure quella sera la cosa fu troppo diversa. Cercò di usare il coltello che c’era sul tavolo per scavar via la calcina ed estrarre una delle pietre del muro. Appena vi fu riuscito dal varco schizzò fuori un getto d’acqua, e a Ender non rimase che guardare lo schermo mentre la sua figura, ormai fuori controllo, si agitava follemente per restare in vita. La finestra della stanza era scomparsa; l’acqua salì e la sua figura annegò. Per tutto il tempo la faccia di Peter Wiggin rimase visibile nello specchio, con gli occhi fissi su di lui.
Sono intrappolato qui, pensò Ender. In trappola alla Fine del Mondo senza una sola via d’uscita.
E seppe, infine, cos’era il triste senso d’inutilità che provava malgrado tutti i suoi successi lì alla Scuola di Guerra. Era disperazione.
C’erano uomini in uniforme all’ingresso della scuola, quando Valentine arrivò. Non avevano l’aria d’essere di guardia, anzi si sarebbero detti in attesa di qualcuno entrato un momento negli uffici. Portavano l’uniforme dei Marines della F.I. le stesse che tutti avevano sempre visto nei sanguinosi filmati di guerra o nei film della TV, e questo stava conferendo all’edificio scolastico un’aura inaspettatamente romantica e avventurosa. Tutti gli studenti erano piuttosto eccitati.
Valentine non lo fu per niente. Dapprima quella novità la fece pensare a Ender; poi ebbe paura. Qualcuno aveva appena pubblicato un saggio molto critico sull’insieme degli articoli di Demostene. Il saggio, e di conseguenza il lavoro di lei, erano stati discussi in un dibattito televisivo aperto a interventi internazionali, e alcuni dei più importanti personaggi della stampa e della politica avevano chi attaccato e chi difeso Demostene. Ciò che l’aveva più preoccupata era stato il commento di un inglese: — Che provochi ostilità o consensi, Demostene non potrà godersi l’incognito per sempre. Ha oltraggiato troppi uomini illustri e sedotto troppi sciocchi perché glielo si permetta. Ma sia che si tolga la maschera da solo per assumere la guida dell’esercito di imbecilli che lo approvano, sia che lo smascherino i suoi avversari, non si può negare che sappia destare effetti di massa ben appropriati al suo pseudonimo.
Come c’era da aspettarsi, Peter ne era rimasto deliziato. Ma Valentine, rendendosi conto di quante persone potenti detestavano Demostene, aveva paura che cominciassero a indagare. La F.I. poteva farlo ufficialmente, ed era risaputo che sebbene fosse proibito i servizi segreti sapevano mettere le mani su qualunque dato. E adesso c’erano militari della F.I. tutto intorno alla Western Guilford Middle School, dentro e fuori. E non erano certamente lì per fare propaganda, perché il servizio di reclutamento dei Marines non ne aveva bisogno.
Così non fu sorpresa nel trovare il suo banco acceso e un messaggio che la attendeva in un angolo dello schermo.
Valentine attese nervosamente nell’anticamera del Preside, finché la porta dell’ufficio non si aprì e il Dr. Lineberry la invitò ad entrare. I suoi ultimi dubbi svanirono quando vide l’uomo alto e robusto, in uniforme da colonnello della F.I., che sedeva in una delle comode poltrone della stanza.
— Lei è Valentine Wiggin — disse l’uomo, alzandosi.