Il Padrone l’aveva guardata di nuovo, mentre passava, e ben presto lei lo seguì. Davanti al secondo camino gli abitanti della città, che avevano continuato a gracidare come ranocchi in uno stagno, adesso attendevano con aria solenne. Il Nobile Horn ascoltava senza espressione e in apparenza anche senza interesse qualcosa che gli stava dicendo il Padrone. La figlia s’era seduta, scegliendo tipicamente l’unico seggio scomodo della sala, un mobile rigido ed esile ricoperto di broccato sbiadito. Stava seduta eretta e immobile. Fra la sua insipidità di pastello e l’opaca freddezza di Horn, il viso del Padrone era scuro e luminoso come le braci del focolare.
— Il Padrone mi ha detto — fece il Nobile Horn rivolgendosi a Irene, e fece una pausa, guardandola come se la vedesse da molto lontano, da una torre lontana molte miglia e con le finestre offuscate che gli rendevano più difficile la visuale… — Sark mi ha detto che hai incontrato un altro viandante, sulla strada del sud.
— Ho visto un uomo. Non ho parlato con lui.
— Perché? — chiese il Nobile Horn, e fece una nuova pausa, mentre metteva insieme le sue parole lente e fredde. — Perché non hai parlato con lui?
— Dormiva. Era… non era di qui… — Irene sentiva l’impulso bruciante e convulso di parlare; si afferrò alla prima parola che le venne in mente. — Era un ladro.
Un’altra lunga pausa, quasi insostenibile. Gli occhi grigi del Nobile Horn, che le ricordavano finestre di torri, non la guardavano più; ma lui parlò di nuovo. — Questo come lo sai?
— Era… tutto. Il suo aspetto, la sua aria — disse Irene, e nell’udire il brusco tono difensivo della propria voce, si sentì pervadere dalla stessa subitanea rabbia vendicativa che aveva provato nel vedere l’intruso e che provava di nuovo ogni volta che pensava a lui. Che diritto aveva d’interrogarla, quel vecchio? La nobiltà e la signoria, al diavolo… erano solo parole diverse per esprimere la prepotenza.
— Dunque tu credi che l’uomo non sia… — Un lungo silenzio, come se Horn avesse esaurito definitivamente le parole. — … Che non possa essere lui, quello che…
— Non capisco.
— L’uomo che aspettiamo — disse Horn.
Allora Irene vide che tutti, lì accanto al focolare, la guardavano, e che le loro facce, le logore facce pesanti degli uomini anziani e dei vecchi, erano intente, imploranti… chiedevano la risposta desiderata, la parola di speranza.
Lei rivolse lo sguardo al Padrone per chiedergli aiuto, perché le dicesse che cosa doveva rispondere. Ma il volto dell’uomo era contratto, indecifrabile. Aveva scosso la testa, quasi impercettibilmente?
— L’uomo che aspettate — ripeté Irene. — Non capisco. Che cosa state aspettando? Perché aspettare? Posso andare io. — Guardò di nuovo il Padrone; i suoi occhi la fissavano, adesso, l’espressione, sebbene ancora guardinga, era più calda; Irene stava dicendo ciò che lui voleva. — Se nessuno di voi può percorrere le strade, mandate me. Posso portare un messaggio. Forse potrò portare un aiuto. Perché dovete attendere un altro? Ci sono io. Posso andare alla Città…
Volse lo sguardo dal Padrone al Nobile Horn, e si sentì gelare dall’espressione del vecchio.
— La via per arrivare alla Città è lunga — disse questi con la sua voce lenta e smorzata. — È un viaggio più lungo di quanto tu immagini. Ma il tuo coraggio trascende ogni elogio. Ti ringrazio, Irena.
Lei rimase confusa, frastornata, fino a quando il Padrone, aggrottando la fronte, la condusse via, e Irene comprese che il suo colloquio con il Signore della Montagna era concluso.
Sola nella sua stanza, di buon’ora, prima di partire, aprì le imposte e guardò il sognante crepuscolo sopra i tetti e i comignoli della città. Lei era ancora calda del tepore del letto, avrebbe voluto dormire più a lungo, avrebbe voluto restare più a lungo. Quando se ne fosse andata, la porta si sarebbe richiusa ancora una volta? Quando avrebbe potuto ritornare? Avrebbe mai potuto ritornare? La ragione per cui doveva andare era ignota, incomprensibile: ormai era assente da un’intera notte, e se non fosse ritornata all’appartamento per le sette del mattino sarebbe arrivata tardi al lavoro… Lavoro, casa, notte, mattina, tutto questo lì non aveva senso; erano parole prive di significato. Eppure, come la forza della paura che impediva agli abitanti della città di lasciare il loro luogo, per quanto fosse insensato era necessario obbedire. Poiché loro non potevano andare, doveva andare lei.
Come sempre, Palizot e Sofir si alzarono per far colazione in sua compagnia prima che se ne andasse, e Sofir le consegnò un involto di pane e formaggio perché lo portasse con sé nel lungo cammino verso la porta. Erano turbati, e non riuscivano a celare il loro turbamento. Irene vedeva che avevano paura per lei.
Si voltò indietro a guardare, alla svolta della strada. Le finestre della piccola città luccicavano di giochi riflessi d’oro nella distesa scura delle foreste che scendevano al fondovalle. Verso nord, al disopra del dosso della montagna, vide un’unica stella vivida brillare, e dopo un istante sparire, perduta, come il riflesso in una gocciola di pioggia o lo scintillio di un minuscolo frammento di mica nella sabbia.
Dopo aver attraversato il Fiume di Mezzo, Irene mangiò il pane e il formaggio che le aveva dato Sofir, e bevve l’acqua freddissima del fiume; riposò un poco, e avrebbe voluto dormire, ma non dormì, non poteva; e proseguì. Nulla la minacciava nella foresta, nulla la spaventava, ma non poteva riposare. Doveva andare avanti. Procedeva con il suo passo leggero e svelto, e finalmente giunse all’ultima altura, la cresta tra gli abeti dal tronco rossastro, scese il lungo pendio verso le macchie dei rododendri, e le attraversò, fino al luogo dell’inizio, la radura della porta… e vide, prima di traversare l’acqua, il cerchio annerito delle pietre, il sacco di plastica seminascosto sotto le felci, gli sgradevoli rifiuti del campo dell’intruso.
Prontamente, Irene si ritrasse tra i macchioni, e da quel riparo rimase a osservare per un po’. Dell’uomo non c’era traccia. I battiti del suo cuore rallentarono, il suo viso cominciò ad avvampare, le orecchie a risuonare un poco. Attraversò il fiume, si accostò al cerchio del focolare ormai freddo, e lo smantellò a calci, pietra dopo pietra, facendo ruzzolare le pietre nell’acqua. Raccolse lo zaino di plastica e il sacco a pelo e si girò verso il fiume; poi, sussurrando sottovoce «Fuori, vattene, vattene,» trascinò quella roba fuori, oltre la porta, su per il sentiero, e la scaricò nel mezzo del bosco di Pincus, ai piedi di un roveto, appena discosto dal sentiero. Poi, proseguì in fretta fino al limitare del bosco, raccattò nel fossato un cartello inchiodato a un palo, con la scritta DIVIETO DI CACCIA strappata via o marcita ormai da molto tempo, che i suoi occhi (se non la sua mente) avevano notato dodici giorni (od ore) prima, quando era passata di lì. Portando il cartello, tornò di corsa alla soglia. Solo quando l’ebbe varcata pensò — E se non avessi potuto passare? — ma senza brividi d’allarme retrospettivo. Era troppo incollerita per aver paura. Raccolse un pezzetto di legno carbonizzato dal focolare disperso, attraversò il fiume e sedette su un macigno, con il cartello sulle ginocchia. Meticolosamente, in nere maiuscole sul legno rugoso e sbiancato dalle piogge, scrisse in stampatello: VIETATO L’ACCESSO.
Piantò il cartello sull’alto dell’argine, dove avrebbe dominato l’intera radura agli occhi di chiunque arrivasse lì varcando la soglia. La base del palo affondò senza troppe difficoltà nel suolo sabbioso, ma tendeva a inclinarsi, e Irene stava prendendo un sasso per martellarlo e piantarlo più saldamente, quando un movimento, oltre l’acqua, attirò il suo sguardo. Restò immobile, poi alzò gli occhi attraverso il turbinare scintillante del fiume. L’uomo stava scendendo dalla soglia, e veniva diritto verso di lei. Tra loro non c’era altro che l’acqua.