L’uomo s’inginocchiò, sull’altra sponda, e abbassò la testa per bere. Soltanto allora Irene si rese conto che non l’aveva vista.

Era abbastanza vicina ai grandi cespugli di rododendri per potersi ritrarre e acquattare, in un unico, lungo movimento, fino a quando il bianco della sua camicia e del suo viso venne nascosto dal fogliame e dall’ombra. Quando cercò di nuovo l’uomo con lo sguardo, lui era in piedi, sull’altra riva del fiume, e fissava… fissava il cartello, naturalmente, il suo cartello, VIETATO L’ACCESSO! Il cuore le diede un tuffo, e la sua bocca si aprì in una risata ansimante e senza suono.

Così, in piedi, l’uomo era grande e grosso, massiccio, esattamente come le era apparso dentro il sacco a pelo. Quando finalmente si mosse, lo fece con passi pesanti, voltandosi per risalire sulla riva. Si fermò a fissare i punti dove prima stavano il suo focolare, il suo zaino, il suo sacco a pelo. Si mosse, si fermò, guardò. Infine si girò lentamente, volse le spalle e si diresse verso la porta, tra gli allori e il pino. Irene strinse le mani, trionfante. L’uomo si fermò di nuovo. Si voltò e tornò indietro, ridiscese e attraversò l’acqua, in una carica pesante e barcollante che lo portò di slancio sulla riva. Svelse il cartello, strappò la tavola dal palo, la spezzò sulla coscia, sporcandosi le mani bagnate di carbone, gettò a terra i pezzi e si guardò intorno. — Bastardi! — disse con voce impastata. — Subdoli bastardi!

— Altrettanto — disse la voce di Irene, e lei sentì le proprie gambe raddrizzarsi.

Subito l’uomo si voltò e venne verso di lei. Irene restò dov’era, perché le sue gambe rifiutavano di muoversi. — Vattene — gli disse. — Sgombra. Questa è proprietà privata.

Gli occhi sgranati si fissarono su di lei. L’uomo si fermò. Era massiccio. La faccia era bianca e inespressiva, ebete. La bocca diceva parole che lei non comprendeva.

L’uomo riprese ad avvicinarsi. Irene sentì la propria voce, ma non seppe che cosa diceva. Stringeva ancora in mano la pietra che aveva raccolto. Avrebbe cercato di ucciderlo, se l’avesse toccata.

— Non è necessario — disse lui con una voce tesa e rauca, una voce di ragazzo. S’era fermato. Le voltò le spalle e tornò indietro, attraversando goffamente l’acqua, risalì la riva, tagliò la radura, si avviò verso la soglia.

Irene rimase immobile a guardarlo.

L’uomo passò tra il pino e gli allori e proseguì. Era strano; lei non aveva mai guardato attraverso la porta, da questa parte? Il sentiero che saliva così erto e scuro verso la luce del giorno sembrava pianeggiante e scoperto, visto da lì, oltre l’acqua; non sembrava diverso dai sentieri della terra crepuscolare. Poteva scorgerlo per un lungo tratto, nella penombra sotto gli alberi, e poteva vedere l’uomo che lo percorreva, allontanandosi nella grigia luce immutabile.

3.

Spezzò il cartello, calpestò i pezzi schiacciandoli nel fango, e rimase lì, con la camicia e i jeans infradiciati dal momento in cui aveva inciampato nel ruscello, con le scarpe piene d’acqua. — Bastardi — disse, ed erano le prime parole che avesse mai pronunciato a voce alta nel luogo del crepuscolo. — Subdoli bastardi!

Gli alti cespugli scricchiolarono e si agitarono. Qualcuno uscì da quel nascondiglio, un ragazzo dai capelli neri che lo fissava. — Vattene — disse il ragazzo. — Sgombra. Questa è proprietà privata.

— D’accordo. Dov’è la mia roba? — Hugh avanzò d’un passo. — Mi è costata una settimana di stipendio. Che cosa ne hai fatto?

— È su nel bosco. Non riportarla qui. Non tornare. Vattene!

Il ragazzo si fece avanti, sdegnato, irridente, pieno d’odio. Hugh non riuscì a reprimere un tremito. — D’accordo — disse, — non è necessario che… — Era inutile. Si voltò, ridiscese la riva e attraversò il ruscello, scivolando e recuperando l’equilibrio. Si diresse verso la porta. Doveva andarsene. Se ne sarebbe andato, e non sarebbe più ritornato: era finita. La sua roba era su, nel bosco, e lui avrebbe varcato la porta e avrebbe ripreso la sua roba e non sarebbe ritornato mai più.

Ma aveva già varcato la porta.

Quando si voltò indietro, vide dietro di lui il crepuscolo, e il turbinare dell’acqua e le rocce che l’infrangevano, e davanti a lui scorse il crepuscolo e il sentiero che proseguiva tra gli alberi.

Aveva perduto la strada. La strada non c’era.

Continuò per qualche passo, poi si fermò; restò immobile; poi tornò indietro, passando fra gli alti cespugli e il pino dalla corteccia rossa, nel luogo dell’inizio.

L’altro, lo sconosciuto, era ancora fermo sull’altra sponda. Non era un ragazzo ma una donna, con i jeans e la camicetta bianca, una macchia indistinta di capelli neri, un viso bianco e intento a fissarlo.

— Non posso uscire — disse Hugh. — La strada non c’è.

Le voci sonore e dolci dell’acqua scorrevano tra loro. Hugh era profondamente spaventato. Disse: — Se conosci questo posto, se vivi qui, dimmi come posso uscire!

La donna si fece avanti bruscamente, attraversò il ruscello, passando agile e leggera da una pietra all’altra. Si fermò accanto alla sporgenza di roccia e indicò la porta. — Là.

Lui scosse il capo.

— Quella è la porta.

— Lo so.

— Vai!

— È cambiata — disse lui. Si voltò e attraversò la radura, passò fra i cespugli e il pino e proseguì. La via non diventava più buia ed erta sotto gli arbusti e i rovi, e più avanti non c’era la luce del sole. Gli alberi erano fitti e indistinti nel crepuscolo senza vento, e non c’era altro suono che la musica del ruscello, dietro di lui. Alla fine si voltò e vide la donna ferma accanto all’acqua, intenta a fissarlo.

Tornò indietro. Lei gli andò incontro, sull’erba.

— Il sentiero prosegue — disse la donna, in un sussurro. — Non ho mai visto una cosa simile. Non è mai stata chiusa da questa parte… Vieni! — Passò oltre Hugh, svelta e irosa, avviandosi verso la porta. Lui l’accompagnò. Il ruvido tronco rossiccio del pino gli sfiorò la spalla. Sul sentiero buio, un ramo di rovo gli si impigliò ai capelli. Scorgeva appena la donna che lo precedeva. Un uccellino cinguettò in toni secchi, dall’alto. L’aria aveva un odore di fumo, di gomma, di benzina, d’aghi di pino riscaldati dal sole. Il terreno era arido, sotto i suoi passi. — Ecco là la tua roba — disse la donna. Lo zaino e il sacco a pelo giacevano nell’erba ispida accanto ai cespugli.

Hugh li guardò, come per controllare che ci fosse tutto. Non osò voltarsi indietro. Temeva che, se avesse guardato dietro di sé, il crepuscolo si sarebbe levato per accompagnarlo. La donna, una ragazza della sua età, era ferma sul sentiero: capelli neri, occhi neri, viso bianco.

— Che luogo è questo? — le chiese. — Lo sai?

Lei non rispose subito, e Hugh pensò che non intendesse farlo. — Se fosse il tuo posto, lo sapresti — disse invece la ragazza con quella sua voce esile e aspra.

— Io devo… — Hugh non riuscì a pronunciare le parole. Perché restava lì immobile, a lasciare che lei lo svergognasse? Si sentiva il viso accaldato e irrigidito: aveva pianto? Si strofinò la mano sulla mascella, nascondendo la bocca, per nascondere la vergogna.

— Non è un campeggio per giovani esploratori — disse lei. — Non è fatto perché tu ci porti la tua robaccia e ti ci accampi e… Non è un parco statale. Tu non ne sai niente. Non conosci le regole. Non parli la lingua, non conosci le loro… Non è il tuo posto. Non è fatto per te. Non è sicuro.

La collera non affiorava per liberarlo dalla vergogna. Doveva restare lì e ascoltare quello che lei diceva, e poi ripetere l’unica cosa che aveva da dire: — Io devo tornare. — La sua voce era un mormorio. — Non lascerò niente là.

La ragazza tremò di rabbia come un frammento di giornale squassato dal vento, un pezzo di carta in fiamme.

— Ti avverto!

Ciò che gli aveva detto prima stava incominciando a imprimersi nella mente di Hugh. — C’è… c’è gente che vive qui?


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