— Stasera no — disse Irene, sbattendo un cassetto della cucina, e gli passò davanti in fretta, entrò in camera sua e chiuse la porta. Rick indugiò per un poco in cucina, imprecando, e poi uscì dall’appartamento sbattendo la porta. Patsi, nell’altra camera da letto, non sbatté nulla, e mantenne un virtuoso silenzio.
Irene sedette sul bordo del letto, con le spalle incurvate in avanti e le mani tra le ginocchia e pensò: Così non può andare avanti. Alla fine del mese finirà. E poi… dove?
Era stata fortunata, perché aveva potuto stare lì, vicino a sua madre, pagando solo un terzo dell’affitto. Aveva potuto finire di pagare la macchina, dalla quale dipendeva il suo lavoro per la Mott Zerming, e pagare la riparazione dei freni e due pneumatici nuovi. Poteva permettersi un affitto superiore, ma non quanto sarebbe venuto a costare un appartamento decente, da quelle parti. La cosa migliore sarebbe stata trasferirsi in città, in centro, e pagare circa la metà, ma allora sua madre si sarebbe preoccupata, avrebbe temuto che lei venisse assalita e violentata; e ci sarebbero voluti mezz’ora o quaranta minuti per arrivare lì, e quindi sarebbe stata lei a preoccuparsi per sua madre. Se almeno l’avesse chiamata, quando Victor si ubriacava. Ma non la chiamava.
Irene si alzò e uscì, sbattendo un po’ la porta, e andò a trovare sua madre.
Era una notte calda, senza un filo di vento. C’era in giro molta gente. Chelsea Gardens Avenue era tutta un rombo di macchine che acceleravano, andavano al minimo, correvano e procedevano lentamente. Alla fattoria, Victor aveva montato un riflettore per poter lavorare sulla sua automobile, sull’aia. Non aveva nessun motivo di farlo la sera, aveva tutta la giornata a disposizione e del resto non era bravo a riparare le macchine; Irene aveva studiato un po’ e in quanto a motori ne sapeva il doppio di lui; ma a Victor piaceva stare sotto il riflettore. Aveva una chiave inglese in una mano e una lattina di birra nell’altra, e stava urlando ai bambini: — Giù quelle mani di merda da quegli utensili, piccoli bastardi! — Due o tre dei suoi figli, fratellastri di Irene, le passarono accanto correndo attraverso il bagliore e il buio dell’aia. Non fecero caso al suo arrivo; ma i cani le prestarono attenzione, i tre cagnolini le abbaiarono istericamente intorno alle caviglie, e il doberman pazzo che Victor teneva incatenato soffocò il suo latrato terribile balzando al limite della catena. La madre di Irene era nella cucina enorme, con Treese, quattro anni. Treese era a tavola e mangiava cereali alla cioccolata direttamente dalla scatola, mentre sua madre si aggirava lentamente, raccogliendo i piatti della cena per lavarli. Erano le nove. — Ciao, Irena, tesoro mio — disse Mrs. Hanson con un lento sorriso di felicità. Si abbracciarono.
Mary Hanson aveva trentanove anni, e aveva avuto tre aborti e sei gravidanze portate a termine. Michael e Irene erano i figli del primo marito, Nick Pannis, morto di leucemia tre mesi dopo la nascita di Michael. La zia di Nick s’era presa in casa la giovane vedova e i due piccini. Era proprietaria della fattoria e di una parte del vivaio dall’altra parte della strada, dove lavorava. Quando si era ritirata e aveva portato i suoi risparmi in una motorhome in Florida, aveva lasciato la fattoria con un mezzo acro di terreno a Mary. Poco dopo, era arrivato Victor Hanson, aveva sposato Mary e aveva generato Wayne, poi Dalton, poi David, poi Treese, e c’erano stati anche gli aborti. Victor aveva le sue teorie a proposito di molte cose, incluso il sesso, e ci teneva a spiegarle agli altri: — Vedi, se un uomo non si libera del materiale fertile, capisci quel che voglio dire, le cellule fertili, quelle tornano indietro e causano la ghiandola prostata. Quel materiale deve essere liberato regolarmente, altrimenti diventa veleno, come tutto quello che non viene eliminato in modo regolare. Come gli intestini puliti, o il fatto di soffiarti il naso, se non ti soffi il naso ti viene la sinusite. — Victor era un uomo grande e grosso, bello, ben fatto, molto preoccupato del proprio corpo, e delle sue funzioni e del suo aspetto, una realtà centrale di cui il resto del mondo e l’altra gente erano soltanto riflessi privi di sostanza: la preoccupazione dell’atleta o dell’invalido, sebbene lui non fosse né l’uno né l’altro, perché era sano e inattivo. Aveva lavorato per una ditta di rivestimenti d’alluminio, ma dopo un po’ di tempo aveva perso il posto. Qualche volta lavorava per un amico che vendeva automobili usate. Qualche volta se ne andava in giro con amici che si chiamavano Don e Fred, o Dwight e Roy, e riparavano televisori o commerciavano in pezzi di ricambio per auto; tornava con un po’ di denaro, sempre in contanti. Di tanto in tanto, una partita di biciclette veniva immagazzinata nel vecchio capanno del trattore, che Victor teneva chiuso con un lucchetto. I bambini smaniavano dalla voglia di mettere le mani su quelle bici, molto belle e nuove, a dieci marce, ma una volta Victor aveva dato a Dalton una sberla che l’aveva sbattuto dall’altra parte della stanza, solo perché aveva parlato delle biciclette che lui teneva lì per fare un favore al suo amico Dwight.
Michael, a quattordici anni, aveva scoperto che il patrigno faceva il piccolo spacciatore di droga, e teneva le sue scorte nel cassettone di Mary. Michael e Irene avevano discusso l’eventualità di denunciarlo alla polizia. Alla fine, avevano buttato la roba nel gabinetto e non avevano detto niente a nessuno. Come potevano parlare con i poliziotti, quando non potevano parlare neppure con la loro madre? Era impossibile capire cosa sapeva e cosa non sapeva; la parola «sapere», in quella situazione, era difficile da definire. L’unico fatto certo era che lei era molto leale. Victor era suo marito. Qualunque cosa facesse, a lei andava bene.
Michael era il suo primo figlio maschio, e a lei andava bene anche tutto quello che faceva lui. Ma Michael non lo accettava. Era immorale. Se fosse rimasta fedele al marito morto, allora la lealtà verso di lui sarebbe stata importante. Ma si era risposata… A diciassette anni, Michael se ne era andato: aveva trovato lavoro presso una ditta di costruzioni dall’altra parte della città. Irene l’aveva visto due volte soltanto, in quei due anni.
Da bambini lei e Michael, separati da una differenza di età inferiore ai due anni, erano stati molto vicini, e avevano condiviso completamente il loro mondo. Verso gli undici anni, Michael aveva incominciato a staccarsi da lei, e questo le sembrava giusto o inevitabile, e quindi era stata una perdita, ma non un grande dolore; quando invece era arrivato all’adolescenza, il rifiuto nei confronti della sorella era diventato assoluto. Passava il tempo con una cricca di altri maschi, adottando i loro modi e la retorica del disprezzo per le femmine, e senza risparmiare neppure lei. Questo, che Irene poteva interpretare solo come un tradimento, era accaduto all’incirca quando il suo patrigno aveva cominciato a diventare davvero insistente, e le tendeva agguati lungo il percorso per andare in bagno, al piano di sopra, le si strusciava addosso quando le passava accanto in cucina, entrava nella sua stanza senza bussare, cercava di infilarle la mano sotto la gonna. Una volta l’aveva sorpresa dietro la baracca del trattore, e lei aveva cercato di buttarla in scherzo, perché non poteva credere che facesse sul serio, fino a quando le si era gettato addosso all’improvviso, pesante come un materasso, soffocante e brutale, e lei gli era sfuggita con un momento di fortuna e un polso slogato. Da quella volta, aveva saputo che non doveva mai restare sola in casa con lui, e non doveva mai andare nel cortile dietro casa. Era dura, doversene preoccupare sempre. Avrebbe voluto dirlo a Michael, e ottenere il suo appoggio, un po’ d’aiuto. Ma adesso non poteva dirglielo. Lui l’avrebbe disprezzata perché provocava Victor ad assalirla. Già la disprezzava perché era una donna, quindi oggetto di libidine e perciò impura.