S’era voltato verso di lei. Aveva la luce alle spalle, e Irene non poteva scorgere i suoi lineamenti. La voce era asciutta e implacabile.

— Perciò abbiamo ascoltato il consiglio dei codardi. Ora siamo tutti codardi. E tutti indifesi. Anziché un solo agnello, tutti i greggi. Non un nostro figlio, ma questo ragazzo, questo stupido ragazzo che non sa parlare la nostra lingua. Lui deve liberarci! Il Nobile Horn era un uomo saggio, ma è passato molto tempo. Se almeno fossi andato alla Città la prima volta che ci ho pensato. Ma ho atteso per deferenza verso di lui…

Quelle ultime parole non significavano nulla per Irene. Ben poco di ciò che il Padrone aveva detto sembrava avere un senso, ma il tono vendicativo aveva spezzato la sua abitudine di timidezza. Gli chiese, senza esitazioni: — Che cosa vuoi dire? Come potrà liberarvi, lo straniero? — Quando lui non rispose, insistette: — Che cosa dovrà fare?

— Salire sulla montagna.

— Per fare che?

— Ciò che è venuto a fare. Così dice il Nobile Horn.

— Ma lui non sa perché è qui. Crede che lo sappiate voi. Lui non sa nulla. Persino io ho sentito la paura, nel venire qui, ma lui no.

— Un eroe è indifferente alla paura — disse il Padrone, in tono irridente.

Le venne un poco più vicino.

— Che cosa è che ci spaventa? — chiese lei con fermezza, sebbene ora avesse paura di lui. — Devi dirmi che cos’è.

— Non posso dirtelo, Irenadja.

Il viso del Padrone era cupo, congestionato, gli occhi ardenti. Sorrise. — Vedi quel ritratto? — disse, e Irene guardò per un momento nella direzione indicata, l’effigie dell’uomo con il volto contratto da una smorfia. — Era il padre di mio nonno. Era Padrone di Tembreabrezi, come lo sono io. Ai suoi tempi venne la paura. Lui non ascoltò i piagnucolii delle donnicciole, e andò, salì la montagna per fare il patto, con il prezzo in mano. E concluse il fatto, e le vie furono liberate. Ridiscese solo dalla montagna, e aveva la mano rattrappita, come la vedi lì. Dicevano che fosse bruciata. Ma mio nonno, che allora era un bambino, diceva che era fredda, a toccarla, fredda come legno putrido d’inverno. Ma lui pagò il prezzo per tutti!

— Quale prezzo? — chiese Irene, scossa dalla paura e dalla ripugnanza. — Che cosa aveva tenuto in mano… che cosa aveva toccato?

— Ciò che amava.

— Non capisco.

— Tu non hai mai capito. Chi sei, tu, per comprenderci?

— Io ti ho amato — disse lei.

— Faresti ciò che lui fece, per amor nostro? Andresti là, alla pietra piatta, ad attendere?

— Farei tutto ciò che potrei. Dimmi cosa devo fare!

Gli occhi del Padrone, adesso, bruciavano. Si avvicinò tanto che Irene sentì il calore irradiato dal suo volto.

— Vai con lui — le disse, in un sussurro. — Lo straniero. Horn lo manderà. Vai con lui. Conducilo al Gradino Alto, alla pietra, la pietra piatta. Conosci la strada. Puoi andare con lui.

— E poi?

— Lascia che lui faccia il patto.

— Con chi? Quale patto?

— Non posso dirtelo — rispose il Padrone, e il volto scuro arse e si contrasse. — Non so. Dici che ci hai amati. Se hai amato me, vai con lui.

Irene non riuscì a parlare, ma annuì.

— Tu ci salverai, Irena — mormorò il Padrone. Girò il viso come per baciarla, ma il tocco delle sue labbra era arido, lieve come una piuma, caldo, più un respiro che un tocco.

— Lasciami andare — disse lei.

Lui si ritrasse.

Irene non poteva parlare e non voleva guardarlo. Si voltò e percorse l’intera lunghezza della sala, fino alla porta. Lui non la seguì.

Irene non ritornò alla locanda, non andò a trovare Trijiat. Scese le strade ripide, sola, e uscì dall’estremità orientale della città, passando davanti alla bottega di Venno e alla casetta di Geba, fino al cortile del tagliapietre. Sedette sul blocco di granito, e sul muretto che fiancheggiava la strada, e sbriciolò tra le dita le piccole, eleganti pigne dei cedri, e pensò; ma più che un pensiero era una lunga angoscia, che doveva vivere come un musicista suona una melodia, dall’inizio alla fine. Spesso i suoi occhi si posavano sulla strada del nord, la strada che scendeva verso la Città del Re, la strada che non poteva percorrere.

Il giorno dopo fu chiamata al maniero. Portava il suo abito rosso, e il suo secondo paio di calze. Palizot cercò di prestargliene un paio nuovo, e le sue scarpe dalle suole sottili, perché «erano più adatte a una visita in casa del Nobile», ma Irene rifiutò, e se ne andò, ostinata e addolorata, nello stesso umore cupo e sofferente sotto il quale, come l’acqua fredda e profonda sotto i canneti d’una palude marina, stava la paura.

Non alzò gli occhi verso la vetta, quando andò dal cancello di ferro al maniero.

Come l’altra volta, il vecchio servitore la condusse nella galleria dalle molte finestre, e c’erano le stesse persone. Questa volta avevano vestito Hugh Rogers come uno di loro. Si rammaricò di non essere venuta lì con i suoi jeans e la camicia, per sfida, e nello stesso tempo si pentì di non aver accettato le scarpette e le calse a righe. Scrutò l’abbigliamento di Hugh; calzoni neri, aderenti, una pesante camicia di lino, un lungo giustacuore ornato di ricami scuri. Gli stavano bene. Era pesante ma proporzionato; la gola era bianca e massiccia, incorniciata dall’alto colletto aperto, e teneva la testa eretta. Le andò subito incontro e le parlò con goffa benevolenza. Era felice in quei begli abiti, con il vecchio che gli batteva la mano sulla spalla, e la figlia del vecchio che faceva la vezzosa con lui, e tutto il cibo e l’attenzione e l’amicizia che il suo cuore poteva desiderare, sicuro, e poi vai a fare l’impossibile, e tante grazie; è per questo che sei venuto, no?

C’era anche il Padrone, e parlava con il vecchio Hobim e altri due abitanti della cittadina. Irene non lo guardò direttamente neppure una volta, ma era continuamente consapevole della sua presenza, e al suono della voce di lui il suo cuore si arrestò e attese.

La figlia del Nobile Horn stava con Hugh. Gli parlava, insegnandogli una parola, l’«adja» che aggiungevano come desinenza al tuo nome quando volevano chiamarti amico, e cercava di spiegargli che il suo nome, come lo sentivano loro, Hiuradjas, conteneva già quella parola, e sarebbe suonato ridicolo se l’avessero aggiunta ancora. Hiuradjadja! e Allia rise, dicendolo, una risata sommessa e gaia. Lui fissava il viso di porcellana e i capelli lanosi. Stupido! pensò Irene. Stupido e sciocco! Non capisci? Ma vedeva la bocca intenerita, gli occhi immobili, e si sentiva sgomenta.

— Alladjia — disse Hugh, e arrossì, faccia e orecchi e collo rossi sotto i capelli folti, chiari e sudati; e poi ridiventò bianco.

Allia sorrise, dolce e fresca come l’acqua, e lo elogiò.

— Sembrano fratello e sorella — disse una voce, vicino a Irene… parlava a lei, si accorse, sottraendosi alla compassione assorta con cui stava osservando Hugh.

Il Nobile Horn le si era fermato accanto. Non la guardava, guardava Allia e Hugh, che la loro biondezza isolava da tutti gli altri presenti. Il viso lungo del vecchio era severo e calmo come sempre. Irene non disse nulla, sconcertata dalla curiosa ironia, o forse intimità, di quel commento. Poi si rivolse a lei. — Rimarrai a lungo con noi, questa volta, Irenadja?

— Soltanto finché potrò essere utile — rispose lei con sarcasmo. Poi se ne vergognò. Era stato Horn a dirle: — Il tuo coraggio trascende ogni elogio — e lei aveva conservato quelle parole come un tesoro, una protezione contro la protezione e il dubbio. Là, nell’altra terra, dove non riusciva a trovarsi una casa, non aveva pensato a chi gliele aveva dette, ma le aveva tenute strette a sé: il tuo coraggio, tu hai coraggio… Non costringerai tua madre a compiere la scelta che non può fare; non le chiederai l’aiuto che non può darti. Tu non hai bisogno di aiuto. Il suo coraggio trascende ogni elogio.

— Nobile Horn — disse, — vorrei essere andata alla Città quando… quando la gente poteva ancora andare.


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