Un grido, un suono distante che era un sibilo e un singulto, appena più forte del battito improvviso del suo cuore.

Corse. La sensazione della presenza dell’abisso d’aria oltre il ciglio del baratro gli faceva girare la testa. La ragazza dormiva; la scosse, dicendo: — Svegliati, svegliati.

— Cosa c’è? — mormorò lei, confusa, facendo una smorfia, e poi spalancò gli occhi quando udì la voce, già molto più forte e più vicina, che ululava e singhiozzava nelle foreste all’estremità settentrionale del prato.

— Vieni — disse Hugh, trascinandola in piedi. Irena afferrò il fardello arrotolato e lo seguì, ansimante, silenziosa. Lui non le lasciò il braccio, perché all’inizio lei quasi non riusciva a muoversi, indebolita dal sonno o dal terrore. La trascinò per qualche passo; e poi, con un sussulto improvviso, lei si svincolò dalla sua mano e cominciò a correre. Si diressero verso la foresta, all’estremità più vicina del pascolo, fuggendo lontano dalla voce. Nessuno dei due aveva preso una decisione consapevole. Correvano. La voce divenne più forte dietro di loro, un ululato singhiozzante che martellava e martellava nei loro orecchi. Raggiunsero la foresta che aveva offerto un nascondiglio e adesso torreggiava come un labirinto di sentieri bui dove si sarebbero sperduti. — Aspetta! — Hugh tentò di gridare ma il respiro si bruciò nei suoi polmoni, lasciandolo senza voce, e lei non poteva udirla, perché il mostruoso, desolato ululare riempiva il mondo. Lei incespicò, e deviò dal tronco di un albero, e urtò contro Hugh, aggrappandosi ciecamente a lui, con la bocca aperta in uno strano varco quadrato. Lo strappò via dal sentiero che stavano seguendo. Hugh si lanciò con lei, giù per il declivio, fra i tronchi degli alberi e i macchioni, tra le foglie e i rami che sferzavano la faccia e gli occhi. Il terreno divenne più scosceso, sdrucciolevole, e inciamparono e scivolarono giù per il declivio per una quindicina di metri o più, per afferrarsi al baluardo di un albero semi-imputridito dove, senza fiato, paralizzati, si rannicchiarono. La voce scacciava ogni pensiero dalla mente, ancora più forte, orribile e desolata, enorme, famelica. Hugh alzò gli occhi, e l’essere che emetteva la voce era là, sul sentiero sopra di loro, e i macchioni tremavano e si agitavano mentre passava, bianco, grinzoso, alto il doppio di un uomo, trascinando la sua mole faticosamente e con terribile rapidità, la bocca tonda spalancata nell’ululato sibilante di fame e di sofferenza insaziabile, e cieco.

Passò. Passò oltre, trascinandosi dietro quel suono orribile.

Hugh giaceva con le spalle contro l’albero caduto, lottando per respirare, per riempirsi d’aria i polmoni. Il mondo scivolò e sbiancò intorno a lui. Quando riacquistò solidità, quando il dolore al petto diminuì, Hugh sentì il calore e il peso contro di lui, contro il fianco e il braccio sinistro. — Irena — disse in un sussurro muto, dando a quel calore un nome, ricomponendosi in quel nome, quella presenza. Lei era accovacciata, piegata in due, con la faccia nascosta. — Tutto bene — le disse.

— È andato — disse lei. — È andato.

— È andato?

— È passato oltre.

— Non piangere.

Lei s’era sollevata a sedere, ma il suo calore era ancora vicino a lui, e Hugh girò la faccia contro la sua spalla, in lacrime.

— Tutto a posto, Hugh. Adesso è tutto a posto.

Dopo un lungo tempo, il respiro di Hugh ridivenne normale. Alzò la testa e si mise a sedere. Irena si ritrasse un po’ e cercò di togliersi dai capelli le foglie e il terriccio, con le dita, e si massaggiò le guance bagnate.

— E adesso? — chiese con un filo di voce roca.

— Non so. Ti sei fatta niente?

Nessuno dei due s’era ferito, rotolando giù per il pendio, sebbene le scalfitture lasciate dai rami che avevano sferzato il viso di Irena spiccassero come linee tracciate da una penna rossa. Ma Hugh si sentiva ammaccato, esausto, oppresso dalla stanchezza mortale che l’aveva assalito sulla strada, oltre la porta; e Irena sembrava condividerla, mentre restava seduta con gli occhi semichiusi, la testa china.

— Non ce la faccio ad andare avanti, adesso — disse lei.

— Anch’io. Ma dovremmo nasconderci. — Era uno sforzo persino parlare.

Strisciarono e sdrucciolarono carponi per qualche metro, più in giù lungo il pendio sempre più ripido. Una grande macchia di rododendri aveva formato una nicchia per le sue radici. Sotto gli alti, vecchi cespugli, la muffa delle foglie era profonda, e aveva un lieve sentore amaro. Irena si insinuò in quella nicchia, e seduta lì, aggobbita come una bambina, cominciò a svolgere il fardello di lana che aveva tenuto stretto sotto il braccio sinistro fino a quel momento. Hugh si infilò un po’ più addentro negli arbusti fino a quando poté sdraiarsi bocconi. Avrebbe voluto slacciarsi la cintura per liberarsi della spada, ma era troppo stanco. Appoggiò la testa sul braccio.

Lei era seduta con le gambe allungate, sotto i rami più esterni dei rododendri. Si voltò, quando lo sentì muovere. Hugh si calò accanto a lei, e incurvò le spalle per liberarle dalla stanchezza. Aveva dormito così pesantemente che il suo corpo era ancora molle, e quasi non riusciva a chiudere la mano. Le scalfitture sul volto di Irena adesso erano nere, graffi d’inchiostro: ma non era più il volto-teschio del terrore e dello sfinimento; era rotondo, morbido, triste.

— Tutto bene?

Lei annuì.

— Chissà se c’è un ruscello, laggiù — disse dopo un po’.

Anche lui aveva sete. Nessuno dei due aveva voglia di mangiare i viveri secchi del fardello di Irena, fino a quando non avrebbero potuto bere. Ma nessuno dei due si mosse per andare a cercare l’acqua. Quella nicchia, recinta e riparata dai vecchi cespugli scuri, sembrava protetta, protettrice. Lì avevano trovato rifugio. Era difficile abbandonarla.

— Non so che fare — disse Hugh.

Parlavano tutti e due sommessamente, senza bisbigliare, ma sottovoce. La foresta montana era quieta, ma non del tutto silenziosa: un lieve movimento del vento spezzava il silenzio.

— Lo so — disse Irena, per spiegare che neppure lei lo sapeva.

Dopo un po’, lui chiese: — Vuoi tornare indietro?

— Indietro?

— Alla città.

— No.

— Neanch’io. Ma non posso… Che altro si può fare?

Lei non disse nulla.

— Devo riportare a loro quella maledetta spada. E dirglielo.

— Dire cosa?

— Che non posso farlo. — Hugh si strofinò le mani sulla faccia, sentì la barba ispida e dolente sul mento e sul labbro. — Che quando l’ho visto mi sono buttato a terra e ho pianto — disse.

— Su, avanti — disse lei, di scatto, balbettando. — Cosa potevi fare? Nessuno poteva far niente. Che cosa si aspettavano?

— Il coraggio.

— Ma è stupido! Tu l’hai visto!

— Sì. — Hugh la guardò. Avrebbe voluto chiederle che cosa aveva visto, perché non poteva né dimenticare né credere all’immagine nei propri occhi. Ma non era capace di parlare direttamente di quella cosa.

— Sarebbe stupido cercare di affrontarlo — disse lei. — Non sarebbe coraggio, solo stupidità. — La sua voce era esile. — Mi dà la nausea solo pensarci.

Dopo una pausa, con la voce che gli si incrinava nella gola, lui disse: — È… ha gli occhi?

— Gli occhi? — Irena rifletté. — Non ho visto.

— Se fosse cieco… Si comportava come se fosse cieco. Il modo in cui correva.

— Può darsi.

— Allora potresti prepararti. Se è cieco.

— Prepararti! — esclamò lei, sarcastica.

— È quel suono. Quel maledetto suono — disse lui, disperato.

— È la paura — disse lei. — Voglio dire, è come quello che succede quando hai paura… senti quella voce. Io l’ho sentita, una volta, mentre dormivo. È come se ti spegnesse la mente. È che… non posso far nulla, Hugh. Non posso esserti d’aiuto. Se tornerà, fuggirò ancora. O forse non riuscirò neppure a fuggire.

Neppure a fuggire: quelle parole gli si impressero nella mente. Vide la pietra piatta in mezzo all’erba. Gli anelli di ferro piantati nella pietra. Il nodo di pelle non conciata attraverso l’anello. Gli si mozzò il respiro, e la saliva fredda gli sgorgò nella bocca inaridita.


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