Arrivò a casa all’ora solita, un quarto alle sette, quella sera, ma sua madre non arrivò e non telefonò. Oziò, leggendo il giornale, e rimpiangendo di non avere qualcosa da mangiare, come le noccioline, le noccioline che aveva mangiato la sera prima e che sua madre avrebbe voluto portare da Durbina l’indomani, cioè quella sera. Oh, diavolo, pensò, avrei potuto andare al luogo in riva al ruscello, dopotutto. Si alzò per uscire; ma non poteva andare proprio adesso, perché non sapeva quando sarebbe rientrata sua madre. Andò in cucina per prepararsi la cena, ma non trovò niente di appetitoso; mangiucchiò qualcosa, e bevve una lattina di succo d’arancio ghiacciato. Aveva il mal di testa. Avrebbe voluto avere un libro da leggere e pensò: Perché non compro una macchina? Così potrei andare in centro, in Biblioteca. Perché non vado mai in nessun posto, perché non ho una macchina? Ma a cosa serviva una macchina, se lui lavorava dalle dieci alle sei e la sera doveva restare a casa? Guardò l’attualità alla televisione per chiuder fuori il cane della sua mente, che gli si ribellava e ringhiava e mostrava i denti. Squillò il telefono. La voce di sua madre era brusca. — Volevo essere sicura, questa volta, prima di tornare a casa — disse lei, e riattaccò.
Quella sera, a letto, Hugh cercò di evocare immagini consolanti, ma divennero tormentose; alla fine ripiegò su una fantasia di molti anni fa, una cameriera che frequentava quando aveva quindici anni. Immaginò di succhiarle i seni, e così portò la masturbazione al culmine, e dopo rimase disteso, immerso nella desolazione.
La mattina dopo si alzò alle sette anziché alle otto. Non aveva detto a sua madre che intendeva alzarsi presto. A lei non piacevano i cambiamenti. Era seduta in soggiorno, con il caffè e una sigaretta, e guardava il telegiornale del mattino, con le sopracciglia tinte di nero e un po’ aggrondate. Per colazione non prendeva mai altro che un caffè. A Hugh piaceva far colazione: gli piacevano le uova, il bacon, il prosciutto, il toast, i panini, le patate, le salsicce, il pompelmo, il succo d’arancia, le focacce, lo yogurt, i cereali, tutto; e metteva latte e zucchero nel caffè. A sua madre la vista, i rumori e gli odori dei suoi preparativi davano la nausea. In quell’appartamento non c’era una porta che divideva la zona cucina dal soggiorno. Hugh cercò di muoversi senza far rumore. Sua madre lasciò cadere tazza e piattino nel lavello d’acciaio e disse: — Vado al lavoro. — Lui sentì in quella voce il terribile tono teso, tagliente, pensò (non lo disse), come la lama di un coltello. — Bene — disse senza voltarsi, sforzandosi di dare alla propria voce un suono sommesso, neutro e neutrale; perché sapeva che erano la sua voce profonda, la sua statura, i piedi grossi e le dita tozze, il suo corpo pesante e sessuale che lei non riusciva a sopportare, che le davano ai nervi.
Sua madre uscì subito, sebbene fossero soltanto le sette e trentacinque. Lui sentì il motore avviarsi, vide l’azzurra macchina giapponese passare davanti alla finestra panoramica, in fretta.
Quando andò all’acquaio, vide che il piattino di sua madre era incrinato, e il manico della tazza era staccato. Quella piccola testimonianza di violenza gli rivoltò lo stomaco. Restò immobile, con le mani sul bordo del lavello, a bocca aperta, dondolandosi un po’ su un piede e sull’altro, com’era sua abitudine quand’era angosciato. Lentamente tese la mano, girò il rubinetto dell’acqua fredda, la fece scorrere. Guardò il getto limpido e precipitoso che riempiva la tazza rotta e ne traboccava.
Lavò i piatti, chiuse a chiave la porta e se ne andò. A destra su Oak Valley, a sinistra su Pine View, e avanti. Camminare era piacevole, l’aria era dolce: il coperchio della giornata afosa non s’era ancora abbassato. Hugh si avviò a passo elastico, e dopo dieci o dodici isolati si liberò dell’influsso del malumore di sua madre. Ma mentre proseguiva, consultando l’orologio, cominciò a dubitare di poter arrivare al luogo del ruscello prima di dover tornare verso Sam’s, per essere al lavoro alle dieci. Come aveva fatto ad arrivare al ruscello, e a sostare e poi a tornare indietro, l’altra sera, in due ore soltanto? Forse adesso era fuori rotta, e non stava seguendo il percorso più breve, o forse aveva sbagliato completamente direzione. La parte della sua mente che pensava senza bisogno delle parole ignorò quei dubbi e quelle preoccupazioni, guidandolo da una strada all’altra, attraverso cinque miglia, Kensington Heights e Sylvan Dell e Chelsea Gardens, fino alla strada di ghiaia, sopra i campi.
Il grande edificio presso la superstrada era la fabbrica di vernici: da quel punto si vedeva la parte posteriore della grande insegna multicolore. Hugh arrivò fino alla recinzione intorno al parcheggio, e guardò giù, cercando di scorgere i campi dorati dal tramonto che aveva visto dalla macchina. Nella luce del mattino non avevano nessun incanto. Erano pieni d’erbacce, un tempo coltivati, ma ormai non venivano più arati, nessuna bestia ci pascolava; erano abbandonati. In attesa che qualcuno ci costruisse. Un cartello, VIETATA LA DISCARICA DEI RIFIUTI, affiorava da un fosso pieno di cardi, accanto alla carcassa arrugginita di un’automobile. Lontano, sui campi, macchioni d’alberi gettavano verso ovest le loro ombre; più oltre c’erano i boschi, che emergevano azzurri nell’aria nebbiosa e assolata. Erano le otto e mezzo passate, e cominciava a far caldo.
Hugh si tolse la giacca di tela jeans e si asciugò il sudore dalla fronte e dalle guance. Per un minuto rimase fermo a guardare il bosco. Se avesse proseguito, anche se non avesse fatto nulla di più che bere al ruscello per andarsene subito, probabilmente sarebbe arrivato in ritardo al lavoro. Imprecò a voce alta, rabbiosamente, girò sui tacchi, e tornò indietro lungo la strada ghiaiata che passava accanto alle fattorie malridotte e al vivaio degli alberi di Natale o quello che era, tagliò verso Chelsea Gardens Place, e procedendo a passo sostenuto lungo le vie curvilinee e prive d’alberi, fra prati, posti macchina, case, prati, posti macchina, case, arrivò a Sam’s Thrift-E-Mart alle dieci meno dieci. Era rosso in faccia e sudato, e Donna, nel magazzino, disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck.
Donna aveva quarantacinque anni, più o meno. Aveva una quantità di capelli rossoscuri, che da un po’ di tempo si acconciava, secondo la moda, in una criniera di riccioli e viticci che le dava l’aspetto di una ventenne, vista di spalle, e di una sessantenne vista di fronte. Aveva una bella figura, brutti denti, un figlio disgraziato che beveva, e un bravo figlio che faceva il pilota degli stock-cars. Provava simpatia per Hugh, e chiacchierava con lui quando ne aveva l’occasione, e gli parlava (qualche volta da cassa a cassa, fra i carrelli e i clienti) dei suoi denti e dei suoi figli, e del cancro di sua suocera, della gravidanza della sua cagna e delle relative complicazioni; gli offriva i cuccioli; e si raccontavano vicendevolmente le trame dei film e degli sceneggiati televisivi. Donna l’aveva soprannominato Buck fin dal primo giorno. — Buck Rogers nel ventunesimo secolo, scommetto che sei troppo giovane per ricordartelo. — E aveva riso di quel paradosso. Quella mattina disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck. Vergogna.
— Mi sono alzato alle sette — ribatté lui.
— E allora perché hai corso? Lanci nuvolette di vapore!
Hugh si fermò, senza sapere cosa dire, poi represse un’esclamazione. — Correre — disse. — Sai, dicono che fa bene.
— Sicuro, hanno anche pubblicato un libro di successo, no? È come il jogging, ma molto più impegnativo. Tu cosa fai, dieci volte il giro dell’isolato di corsa? Oppure vai in palestra o qualcosa del genere?
— Corro, così — disse Hugh, avvilito all’idea di rispondere con una menzogna all’interesse premuroso della donna; ma non gli passò per la mente di cercare di parlarle del luogo che aveva scoperto in riva al ruscello. — Sono un po’ grasso. Ho pensato di provare con questo sistema.