— Sì, forse pesi un po’ troppo per la tua età. Ma a me sembra che vada benone così — disse Donna, squadrandolo. Hugh si sentì profondamente compiaciuto.
— Sono grasso — disse, battendosi la mano sul ventre.
— Un po’ cicciosetto, forse. Ma pensa a tutte le ossa che hai per portare il tuo peso. Dove le hai prese? Tua madre è così minuta, così esile che quasi non riesco a crederci, quando viene qui a far spesa. Tuo padre doveva essere grande e grosso, eh: hai preso da lui.
— Già — disse Hugh, girandosi per mettere il grembiule.
— È morto, Hugh? — chiese Donna, e nella sua domanda c’era un’autorità materna che lui non poteva ignorare o eludere; ma non poteva rispondere adeguatamente. Scrollò la testa.
— Divorziato — disse Donna, pronunciando la parola, come se fosse normalissima, e certamente preferibile alla morte; Hugh, dato che per sua madre quella parola era un’oscenità impronunciabile, avrebbe annuito con sollievo, ma dovette scrollare di nuovo il capo. — Se ne è andato — disse. — Devo aiutare Bill a spostare le casse. — E se ne andò. Andò via, fuggì, si nascose. Fra le casse, tra le fettine di surrogato di bacon e il verde ammiccare dei registratori di cassa: dovunque, potevi nasconderti dovunque, e nessun posto era meglio di un altro.
Ma di tanto in tanto, durante quella giornata di lavoro, pensò all’acqua del ruscello nella sua bocca e sulle sue labbra. Smaniava dal desiderio di bere di nuovo quell’acqua.
Si portò a casa l’idea che gli aveva dato Donna.
— Ho pensato di alzarmi presto la mattina e di fare un po’ di jogging — disse, a cena. Mangiavano sui vassoi, davanti al televisore. — Perciò mi sono alzato presto, questa mattina. Per provare. Ma sarebbe meglio se mi alzassi prima, credo. Magari alle cinque o alle sei. Quando non ci sono macchine in giro. E fa più fresco. E così non ti darò fastidio mentre ti prepari per andare al lavoro. — Sua madre cominciava a scrutarlo insospettita. — Se non ti dispiace che esca prima di te. Non mi sento in forma. Stare sempre alla cassa non è granché come esercizio, direi.
— Sempre più che se fossi seduto tutto il giorno dietro una scrivania — disse sua madre, e questo lo sorprese come un attacco ai fianchi. Da mesi non parlava più della scuola per bibliotecari e del lavoro in biblioteca, fin da prima che lasciassero l’ultima città. Forse lei si riferiva al lavoro d’ufficio, come il suo. La voce non aveva quel tono tagliente, sebbene fosse piuttosto brusca.
— Ti dispiacerebbe se mi alzassi presto e uscissi per un paio d’ore? Potrei essere di ritorno quando esci tu, e prepararmi la colazione dopo che sei andata al lavoro.
— Perché dovrebbe dispiacermi? — disse lei, abbassando lo sguardo sulle spalle scarne per assestarsi le spalline dell’abito estivo. Accese una sigaretta e guardò il teleschermo, dove un giornalista stava descrivendo un incidente aereo. — Sei liberissimo di andare e venire, hai vent’anni, quasi ventuno, dopotutto. Non devi consultarmi per tutte le piccole cose che vuoi fare. Non posso decidere io per te. L’unica cosa che chiedo è che non lasci la casa vuota di sera. È stato un colpo tremendo, l’altra notte, quando sono arrivata e tutte le luci erano spente. È solo questione di buon senso e di un po’ di riguardo. Siamo arrivati al punto che non si può stare al sicuro neppure in casa propria. — Lei aveva cominciato a parlare con voce tesa, e a battere l’unghia del pollice sul filtro della sigaretta. Hugh era innervosito, e temeva quello che sarebbe venuto poi; ma sua madre non disse altro, e continuò a guardare attentamente la televisione. Lui non osò insistere. Andò a letto senza che nessuno dei due avesse detto altro. Normalmente, avrebbe dato ascolto alla minaccia di una crisi isterica e non avrebbe fatto quel che voleva fare: ma questa volta era deciso. Aveva sete, doveva bere. Si svegliò alle cinque, e balzò dal letto infilando la camicia prima ancora di essere completamente sveglio.
L’appartamento sembrava diverso, in quella luce nuova, il crepuscolo dell’alba. Hugh non calzò le scarpe prima di essere arrivato sui gradini, davanti alla casa. I raggi del sole erano orizzontali e invadevano le strade laterali, dietro le palazzine. Oak Valley Road era immersa in una fresca ombra azzurra. Lui non aveva messo la giacca, e rabbrividiva. Nella fretta, allacciò male la scarpa, e dovette lottare con il nodo, come un bambino che teme d’arrivare tardi a scuola; poi si avviò. Al trotto del jogging. Non gli piaceva mentire. Aveva detto che avrebbe praticato il jogging, e quindi lo praticava.
Impiegò un po’ meno di un’ora, procedendo al passo quando restava senza fiato e imponendosi con crescente difficoltà di riprendere il ritmo del jogging, per raggiungere i boschi al di là dei campi abbandonati. Poi si soffermò, sotto le prime fronde del bosco, e consultò l’orologio. Erano le sei meno cinque.
Sebbene gli alberi non fossero molto fitti, il bosco era un luogo completamente diverso dai campi scoperti, diverso come stare all’aperto era diverso dallo stare al chiuso. Dopo pochi metri, l’ardente, fulgida luce del primo mattino venne esclusa, eccettuati i pochi barbagli dispersi sulle foglie e sul suolo. Hugh non aveva più visto nessuno, da quando aveva lasciate le vie dei sobborghi. Non c’erano staccionate che fungevano da confine, anche se al limitare del bosco c’era una fila di pali imputriditi e di fili di ferro aggrovigliati. Più d’un sentiero indistinto si diramava fra gli alberi e il sottobosco: ma lui ritrovò senza esitare il suo percorso. Notò un piccolo frammento di stagnola sotto i rami unghiuti dei cespugli di more accanto al sentiero: ma non c’erano etichette di birra, lattine di bevande analcoliche, preservativi, fazzolettini di carta usati, incarti di caramelle. Lì non ci veniva quasi nessuno. Il sentiero svoltava verso sinistra. Hugh cercò con gli occhi l’alto pino dal ruvido tronco rossastro, e ne scorse i rami più alti, scuri contro il cielo. Il viottolo si restrinse, scese, oscurandosi, mentre il terreno diventava più molle. Hugh passò fra il pino e gli alti cespugli, la porta del luogo in riva al ruscello: e c’erano le radure sulle due sponde, la più vicina e la più lontana, il movimento e il canto dell’acqua, e l’aria fresca, e il fresco, dolce, limpido crepuscolo della sera inoltrata.
Indugiò sulla soglia, sovrastato dagli alberi scuri. Se guardassi indietro, pensò, vedrei la luce del sole tra gli alberi. Non guardò indietro. Avanzò, a passo lento.
Sull’orlo dell’acqua si soffermò per togliersi l’orologio. La lancetta dei secondi non si muoveva, l’orologio era bloccato sulle sei meno due minuti. Lo scosse, poi l’infilò nella tasca dei jeans, rimboccò sopra i gomiti le maniche della camicia, e si piegò su entrambe le ginocchia. Con voluta lentezza si chinò in avanti, abbassando la testa, affondando le mani nella sabbia fangosa del bordo e bevve l’acqua corrente.
Un paio di metri più a monte, un macigno piatto si sporgeva sul ruscello. Andò a sedersi, e poco dopo si sporse per immergere le mani nell’acqua. Si passò più volte le mani bagnate sul volto e sui capelli. Aveva la pelle chiara, e l’acqua era fredda; notò con piacere che i polsi e le mani, nell’acqua, assumevano il color rosso del salmone in scatola. L’acqua era scura ma limpida, come un cristallo affumicato. Nelle piccole lanche sabbiose, al riparo del macigno, c’erano sciami di ciottoli, e i loro colori e le loro screziature erano intensificati dall’acqua. Hugh li guardò, guardò i riccioli trasparenti della corrente che li coprivano, poi si raddrizzò a sedere sulla roccia sporgente e levò gli occhi verso il cielo incolore. Non vi era nulla che si muovesse, lassù. Accanto alla nera punta aguzza di un pino, sul dosso oltre il ruscello, gli sembrava di scorgere una stella con la coda dell’occhio, ma quando la cercava direttamente con lo sguardo non era visibile. Restò immobile a lungo, con le braccia strette intorno alle ginocchia, nel fruscio e nella musica dell’acqua.