Orr prese uno squallido piatto di pesce fritto, con patate e salsa di arachidi africana, in un affollato self-service; mentre mangiava, pensò tristemente: Be’, una volta le ho dato un appuntamento a vuoto da Dave, e questa volta è stata lei a darlo a me.

Si sentì prendere da una tristezza insopportabile. La tristezza del dopo-sogno. La perdita di una donna che non era mai esistita. Cercò di gustare il cibo, di guardare le altre persone. Ma il cibo non aveva gusto e le persone erano uniformemente grige.

All’esterno delle porte di vetro del ristorante, la folla si stava facendo più fitta: gente che si dirigeva al Palazzo dello Sport di Portland (un enorme colosseo, costruito con grande prodigalità) per lo spettacolo pomeridiano. La gente non stava più in casa a guardare la TV: nella Federazione dei Popoli, la televisione funzionava soltanto due ore al giorno. Il modo di vivere moderno imponeva di socializzare, di stare insieme. Era martedì: oggi doveva esserci la lotta libera, massima attrazione della settimana fino al football del sabato sera. In verità morivano più atleti nella lotta libera, ma lo spettacolo non aveva gli aspetti drammatici, catartici del football, la pura carneficina che coinvolgeva 144 uomini, gli schizzi di sangue che giungevano fino ai sedili degli spettatori. L’abilità dei singoli lottatori era piacevole a vedersi, ma non dava lo splendido scatenamento abreativo dell’uccisione di massa.

Più niente guerra, si disse Orr, scostando sul bordo del piatto gli ultimi pezzetti di patata, unti e rinsecchiti. Rientrò nella folla. Ain’t gonna… war no more. Non… più la guerra. C’era una canzone. Una volta. Una vecchia canzone. Ain’t gonna… E poi, com’è il verbo? Non «combatterò», non sta nel verso. Ain’t gonna… war no more…

Proseguendo, Orr si imbatté in un Arresto di Cittadino. Un uomo alto con un volto lungo e grigio, rugoso, teneva per la collottola un altro uomo, con una faccia grigia e piena, lucida. La folla andava a sbattere contro la coppia: alcuni si fermavano a guardare, altri proseguivano verso il Palazzo dello Sport. — Questo è un Arresto di Cittadino; per favore, i presenti assistano! — diceva con voce acuta, penetrante, l’uomo alto. — Quest’uomo, Harvey T. Gonno, soffre di un incurabile tumore maligno addominale, ma ha nascosto la sua residenza alle autorità e continua a coabitare con la moglie. Io mi chiamo Ernest Ringo Martin e abito al 2624287 South West Eastwood Drive, Sunny Slopes Subdivision, Grande Portland. Ci sono dieci testimoni? — Uno dei testimoni tenne fermo il criminale, che si divincolava debolmente, mentre Ernest Ringo Martin contò i testimoni. Orr si affrettò ad andarsene, tuffandosi nella folla, prima che Martin somministrasse l’eutanasia con l’apposita pistola ipodermica, portata da tutti i cittadini adulti provvisti del Certificato di Responsabilità Civile. Lo stesso Orr ne aveva una. Erano obbligatorie. La sua, in questo momento, non era carica; la carica era stata tolta quando era entrato come paziente psichiatrico al Centro Programmazione; ma gli avevano lasciato l’arma perché la momentanea perdita di rango sociale non divenisse una pubblica umiliazione. Un disturbo mentale come quello per cui era attualmente in cura, gli avevano spiegato, non doveva venire confuso con un crimine punibile, come ad esempio una malattia grave di tipo infettivo o ereditario. Non doveva pensare di essere in alcun modo un pericolo per la Razza o un cittadino di categoria B, e la sua arma avrebbe riavuto la carica una volta dimesso dal dottor Haber e guarito.

Un tumore. Ma la Peste cancerogena, uccidendo tutte le persone con predisposizione al cancro, o durante il Crollo, o in tenera età, non aveva eliminato il flagello? Sì, ma in un altro sogno. Non in questo. Il cancro si era di nuovo risvegliato, come Monte Tabor o Monte Hood.

Studiare. Ecco il verbo mancante. Ain’t gonna study war no more…

Salì sulla funicolare all’incrocio tra Fourth Street e Alder Street; si innalzò al di sopra della città grigia e verde, fino alla torre del SURA, che coronava le colline occidentali, nell’area di Washington Park in cui era sorta la vecchia Pittock Mansion.

L’edificio sovrastava ogni cosa: la città; i due fiumi; le valli a occidente, velate dalla foschia; le grandi alture cupe di Forest Park che si estendevano a nord. Al di sopra del colonnato del portico, incisa nel chiaro cemento, in quel Romano maiuscolo che con le sue proporzioni conferisce nobiltà a qualsiasi frase, c’era la scritta: IL MASSIMO BENE PER IL MASSIMO NUMERO.

Nell’interno dell’immenso atrio in marmo scuro, copiato dal Pantheon di Roma, c’era un’iscrizione più piccola, a caratteri dorati che coprivano l’intera circonferenza del tamburo della cupola: IL DEGNO STUDIO DELL’UMANITÀ È L’UOMO. A. POPE. 1688-1744.

L’area dell’edificio, così avevano detto a Orr, era superiore a quella del British Museum, e la costruzione aveva cinque piani in più. Era anche a prova di terremoto. Non era a prova di bombe, perché non c’erano più bombe. I depositi di bombe atomiche rimasti dopo la Guerra Cislunare erano stati portati via dalla terra, e fatti esplodere in una serie di interessanti esperimenti, nella Fascia degli Asteroidi. L’edificio poteva resistere a qualsiasi cosa rimasta sulla terra, eccetto che Monte Hood, forse. Oppure un brutto sogno.

Prese il nastro trasportatore per l’Ala Ovest, e l’ampia scala mobile elicoidale per l’ultimo piano.

Il dottor Haber teneva ancora nell’ufficio il divano; una specie di ricordo, ostentatamente umile, dei suoi inizi come analista privato, quando si occupava delle persone a una alla volta, anziché a milioni. Ma occorreva un certo tempo per arrivare al divano, perché il suo ufficio copriva quasi 2000 metri quadrati, e comprendeva sette diverse stanze. Orr si annunciò al citofono della sala d’attesa, poi passò davanti a Miss Crouch, che stava armeggiando con un calcolatore, superò la sala di rappresentanza (un salone maestoso, in cui mancava soltanto il trono) dove il direttore riceveva delegazioni, ambasciatori, vincitori di Premi Nobel, finché giunse a un ufficio più piccolo, con il divano e una finestra panoramica ampia come tutta la parete. Gli antichi pannelli di legno scolpito che coprivano un’altra parete erano aperti e mostravano una magnifica serie di macchine elettroniche da ricerca: Haber in quel momento era tuffato nelle viscere aperte del suo Aumentore. — Salve, George! — tuonò dall’interno, senza voltarsi. — Sto mettendo un nuovo equilibratore nell’ormocoppia. Ancora un momento. Oggi faremo una seduta senza ipnosi. Si sieda, ne ho ancora per qualche tempo, mi sono messo a pasticciare con i circuiti… Senta. Ricorda la batteria di test psicologici che le hanno somministrato quando si è recato alla Clinica Universitaria? Tipo di personalità, Quoziente d’Intelligenza, Rorschach e infiniti altri? Poi io le ho somministrato dei Test di Percezione Tematica e alcune situazioni simulate di incontro, all’epoca della sua terza seduta. Ricorda? Se ne è mai chiesto i risultati?

Il volto di Haber, grigio e incorniciato da capelli e barba neri e ricciuti, comparve bruscamente al di sopra dello chassis dell’Aumentore. I suoi occhi, mentre guardava Orr, riflettevano la luce della parete-finestra.

— Penso di sì — fece Orr. In realtà non ci aveva mai pensato, neppure per un istante.

— Penso che ormai lei abbia il diritto di sapere che, entro i parametri di quei test, standardizzati ma molto acuti e molto utili, lei è talmente sano da rappresentare un’anomalia. Naturalmente, la parola comune «sano» non ha nessun significato obiettivo preciso; in termini statistici, i suoi punteggi corrispondono alla mediana del campo di valori. Il suo punteggio estroversione/introversione, ad esempio, era 49,1. Vale a dire che lei è 0,9 gradi più introverso che estroverso. Ciò non è per nulla inconsueto, ma è davvero strana la comparsa dello stesso rapporto in tutte le misure. Se le mettessimo tutte in un solo diagramma, lei si troverebbe esattamente nel mezzo, a 50. La dominanza, ad esempio; mi pare che lei sia 48,8. Né dominatore né sottomesso. Dipendenza/indipendenza: stesso discorso. Creativo/distruttivo, sulla scala Ramirez: identico. L’una cosa e l’altra. Questo o quello. Dove c’è una coppia di opposti, una polarità, lei è nel mezzo; dove c’è una scala di valori, lei è nel punto di equilibrio. Un dato si cancella con l’altro, così profondamente che, in un certo senso, non resta nulla. Ora, il dottor Walters, giù alla Clinica Universitaria, interpreta questi risultati in un modo leggermente diverso; Walters dice che la sua mancanza di successo sociale è frutto del suo adattamento olistico, qualsiasi cosa sia, e che quella che io chiamo autocancellazione è uno stato molto peculiare di armonia della sua personalità. Dalla qual cosa lei può vedere che come scienziato, diciamolo pure, il vecchio Walters è una pia menzogna, non ha mai superato il misticismo degli anni ’70; ma non è cattivo. Comunque, eccole il giudizio: lei è la persona che sta esattamente nel punto di mezzo del grafico. Adesso ci siamo, metto solo quest’affare sull’altro e siamo a posto… Cristo! — Mentre si alzava, aveva battuto la testa contro uno sportello. Lasciò aperto il pannello di legno che nascondeva l’Aumentore. — Be’, lei è un tipo strano, George, e la cosa più strana in lei è che non ha nulla di strano. — Fece una risata enorme, apocalittica. — Perciò, oggi proveremo un nuovo approccio. Niente ipnosi. Niente sonno. Niente stadio-d e niente sogni. Oggi desidero collegarla all’Aumentore mentre è in uno stato di veglia.


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