Il suo educato silenzio aveva una forte carica di tensione, cui Tovo non rimase insensibile. Da buona maestra sapeva quando una domanda esige una risposta. E tacque.

Come la loro vela si abbassò e la barca scivolò verso la banchina costruita sulle antiche fondamenta del ponte, Havzhiva chiese, «Quella storica appartiene al Cavo Sepolto o agli Originari?»

«Al Cavo Sepolto,» rispose la madre. «Oh, come mi sento anchilosata! Queste barche sono così dure!» La donna che li aveva trasportati, una traghettatrice del clan dell'Erba, fece tanto d'occhi, ma non proferì parola in difesa della sua graziosa barchetta così flessibile.

«È in arrivo un tuo parente?», chiese Havzhiva a Iyan Iyan, quella sera.

«Oh, sì, si è già annunciata al tempio.» Iyan Iyan intendeva dire che al centro d'informazione di Stse era pervenuto un messaggio che era stato trasmesso all'apparecchio ricevente di casa sua. «Mi ha detto mia madre che un tempo ha abitato nella tua casa. Chi hai incontrato a Etsahin oggi?»

«La solita gente del Sole. È una storica questa tua parente?»

«Sono dei pazzi,» asserì con noncuranza Iyan Iyan, chinandosi nuda a massaggiare la schiena del nudo Havzhiva.

Arrivò la storica, una donnetta piccola e minuta sulla cinquantina, di nome Mezha. Quando Havzhiva la incontrò la prima volta era vestita con abiti di Stse e sedeva a colazione con tutti gli altri. Aveva occhi luminosi ed era briosa ma poco loquace. Niente nella sua persona lasciava trasparire che aveva infranto il patto sociale, fatto cose sconvenienti per una donna, ignorato il suo clan, e che si era mutata in un essere di un'altra specie. Sapeva di lei che era sposata col padre dei suoi figli, che tesseva al telaio e che castrava animali. Ma nessuno cercò di schivarla, anzi, dopo colazione gli anziani la condussero fuori per una cerimonia di benvenuto, quasi fosse ancora una di loro.

Havzhiva era quanto mai incuriosito dalla sua persona, e dalle sue vicende. Interrogò Iyan Iyan su di lei, finché Iyan Iyan non gli rispose risentita, «Non so cosa faccia e non so cosa pensi. Gli storici sono dei pazzi. Vai a domandarglielo da te!»

Quando Havzhiva si rese conto di provare timore a farlo, senza alcuna ragione apparente, capì che si trovava in presenza di un dio che voleva qualcosa da lui. Salì fino a un gradino tra le sacre pietre sulle alture che dominavano il paese. Sotto di lui le nere tegole dei tetti e le bianche mura di Stse si adagiavano sui declivi, e i bacini di irrigazione brillavano argentei in mezzo ai campi e ai frutteti. Al di là della terra coltivata si stendevano le paludi marine. Trascorse un intero giorno seduto in silenzio, scrutando il mare di fuori e il suo animo di dentro. Poi ridiscese a casa sua, e vi rimase a dormire. Quando si presentò per colazione alla casa di Iyan Iyan, lei lo guardò senza dir nulla. «Ho digiunato,» spiegò lui.

Con una lieve alzata di spalle, lei gli disse, sedendoglisi accanto, «Mangia, allora!» Dopo colazione Iyan Iyan uscì per andare al lavoro. Lui no, benché fosse di turno ai telai.

«Madre di tutti i Figli!» disse rivolgendosi alla storica col più alto titolo onorifico dato dal suo clan alla donna di un altro, «ci sono cose che io non so, e che tu sai.»

«Quello che so sarò felice d'insegnartelo,» rispose lei, pronta con la frase di rito come se avesse sempre vissuto lì. Poi sorrise, e, prevenendo la seguente richiesta indiretta, «Io dono agli altri ciò che ho avuto in dono,» disse, lasciando intendere che non avrebbe preteso alcun compenso o favore. «Vieni, andiamo in piazza.»

Tutti, a Stse, vanno in piazza per parlare, si siedono sui gradini oppure, nelle giornate calde, sotto i portici, e osservano gli altri andare e venire, sedersi e parlare. Era forse un po' troppo pubblico rispetto alle aspettative di Havzhiva, che però si sottomise al volere del suo dio e della sua maestra.

Si sedettero in una nicchia del basamento della grande fontana, salutando qualcuno quasi a ogni frase con un cenno o una parola.

«Perché sei…?» cominciò a domandare Havzhiva, poi si bloccò.

«Perché sono partita? Dove sono stata?» Lei chinò la testa di lato, gli occhi luminosi come un araha, chiedendosi se erano proprio quelle le domande a cui il giovane attendeva risposta. «Ecco, vedi, io sono stata innamorata pazza di Granito, ma non abbiamo avuto figli, e lui voleva un figlio… Tu gli somigli, per com'era allora. È un piacere per me starti a guardare… Dunque, io ero infelice. Niente mi andava bene, qui. Sapevo tutto quel che c'era da sapere. O per lo meno lo pensavo».

Havzhiva annuì.

«Lavoravo al tempio. Leggevo i messaggi in arrivo o in partenza, e mi ponevo delle domande. Pensavo: quante cose accadono nel mondo! Perché dovrei restar qui tutta la vita? La mia mente è forse ancorata a questo luogo? Così cominciai a comunicare con altri luoghi del tempio: chi sei?, cosa fai?, come si vive laggiù? Mi misero immediatamente in contatto con un gruppo di storici che erano nati nei villaggi e che erano alla ricerca di persone come me, per non rischiare di sprecare tempo o di offendere qualche dio».

Il discorso suonava molto familiare a Havzhiva, che annuì di nuovo con convinzione.

«Feci loro delle domande. Loro fecero domande a me. Una pratica comune fra gli storici. Venni a sapere che avevano delle scuole, e chiesi di poterne frequentare una. Alcuni di loro vennero qui a parlare con me, con la mia famiglia e con gli altri, per vedere se ci sarebbero stati problemi per la mia partenza. Stse è un paese conservatore. Non c'era stato uno storico proveniente da qui per quattrocento anni».

Sorrise, con un sorriso improvviso e accattivante, ma il giovane ascoltava con serietà estrema, impassibile. Lei lo guardò in viso con tenerezza.

«La gente di qui manifestò inquietudine, ma nessuno andò in collera. Così, appena furono presi gli accordi, partii con loro. Andammo in volo a Kathhad, dove c'è una scuola. Io avevo ventidue anni. Cominciai la mia nuova educazione. Imparai a fare la storica».

«Come?» chiese lui, dopo un lungo silenzio.

Lei sospirò profondamente. «Facendo domande difficili», disse. «Proprio come fai tu adesso… E rinunciando a tutto il sapere che avevo, scartandolo.»

«Come?» chiese lui di nuovo, aggrottando le sopracciglia. «Perché?»

«Adesso ti spiego. Quando sono partita sapevo di essere una donna del Cavo Sepolto. Una volta arrivata là ho dovuto disconoscere questa cognizione. Là, io non sono una donna del Cavo Sepolto. Sono una donna. Posso avere rapporti sessuali con chiunque mi piaccia. Posso intraprendere qualsiasi professione di mia scelta. Qui, è il clan che conta. Là, non conta niente. Qui ha un senso, e un'utilità. Non ha alcun senso né alcuna utilità in nessun'altra parte dell'Universo.» Era serissima adesso, come lo era lui. «Esistono due tipi di sapere: locale e universale. Esistono due misure di tempo: locale e storico.»

«Esistono due tipi di dèi?»

«No», rispose lei. «Non ci sono dèi laggiù. Gli dèi sono qui.»

Vide il suo viso che cambiava.

Dopo una pausa, riprese, «Ci sono anime laggiù. Tante, tante anime, menti, menti dotate di tanta conoscenza e passione. Vive e morte. Gente vissuta su questa terra cento, mille, centomila anni fa. Menti e anime di abitanti di mondi lontani centinaia di anni-luce dal nostro, ognuno dei quali ha il proprio sapere e la propria storia. Il mondo è sacro, Havzhiva. Il cosmo è sacro. Questa non è una nozione di quelle che m'è toccato lasciarmi alle spalle. Tutto quello che ho appreso, sia qui che là, non ha fatto che rinforzarla. Non c'è niente che non sia sacro.» Parlava lentamente e a bassa voce, al modo degli abitanti del pueblo. «Puoi scegliere tra la sacralità locale e quella che la trascende. In fin dei conti è la stessa cosa. Ma non nella vita che viviamo. Sapere che c'è una scelta significa compiere la scelta: divenire o stare. Fiume o sasso. I popoli sono il sasso. Gli storici sono il fiume.»


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