Dopo un po' lui disse, «I sassi sono il letto del fiume».

Lei rise. Il suo sguardo indugiò di nuovo sul giovane, con benevolenza e affetto. «Così sono tornata a casa,» disse. «Per riposare.»

«Ma non sei… non sei più una donna del tuo clan?»

«Certo, quando sono qui. Lo sono ancora, lo sarò sempre.»

«Ma hai cambiato natura! Partirai di nuovo!»

«Certo,» affermò lei con decisione. «È possibile avere più di una natura. Ho un compito da portare a termine, laggiù.»

Lui scosse la testa, lentamente ma con altrettanta decisione. «Che senso ha un compito, senza gli dèi? Non significa niente per me, Madre di Tutti i Figli! Non riesco proprio a ficcarmelo in testa.»

Il doppio senso la fece sorridere. «Ci entrerà quando deciderai di farlo, Uomo del mio popolo,» disse, rivolgendosi a lui in maniera formale per fargli capire che era libero di andarsene.

Lui esitò, poi prese congedo. Andò a lavorare, immergendosi totalmente negli ampi motivi seriali dei grandi tappeti a telaio.

Quella notte si unì a Iyan Iyan in maniera così appassionata da lasciarla esausta e un po' perplessa. Il dio era tornato a visitarli, come fuoco che arde e consuma.

«Voglio un figlio,» disse Havzhiva mentre giacevano avvinghiati insieme, sudati, un intrico di braccia, gambe, seni e respiri nell'oscurità densa di afrori.

«Oh!» sospirò Iyan Iyan, che non aveva voglia di parlare, di decidere, di impegnarsi. «Forse… non subito… più tardi…»

«Ora!» disse lui «Adesso!»

«No!» mormorò lei «Lasciami stare!»

Lui rimase in silenzio. Lei si addormentò.

Più di un anno dopo, quando avevano diciannove anni, Iyan Iyan gli disse, prima di spegnere la luce, «Voglio un bambino».

«È troppo presto.»

«Perché? Mio fratello ha quasi trent'anni. E a sua moglie farebbe piacere avere un bambino in casa. Dopo lo svezzamento verrei a dormire con te a casa tua. Hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto.»

«È troppo presto,» ripeté lui. «Non voglio.»

Mettendo da parte il tono dolce e persuasivo, Iyan Iyan insistette, «Cosa vuoi, Havzhiva?»

«Non lo so.»

«Tu stai per partire. Stai per abbandonare il tuo Popolo. Stai diventando pazzo. Per colpa di quella maledetta strega!»

«Non ci sono streghe,» replicò lui risentito. «Sono tutte stupidaggini. Superstizione!»

Si fronteggiarono guardandosi negli occhi, gli amici diletti, gli amanti.

«Allora cos'è che hai? Se vuoi tornare a casa tua, dillo. Se vuoi un'altra donna, va' da lei. Ma fammi avere mio figlio, prima! Ora che sono io a chiedertelo! Hai forse perso il tuo araha?» Lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, fiera, indomita.

Lui si nascose il viso tra le mani. «Non è giusto!» disse. «Non è giusto. Tutto quello che faccio, sono costretto a farlo perché così si usa, ma per me… non ha senso. Ci sono altre vie…»

«C'è una sola via giusta che conosco,» affermò Iyan Iyan, «ed è quella che io seguo. C'è un solo modo di fare figli. Se ne conosci un altro, mettilo in pratica, ma non con me!» Dopodiché esplose in un pianto convulso, dando libero sfogo alle paure e alle angosce represse per mesi, mentre lui cercava di trattenerla e calmarla.

Quando fu di nuovo in grado di parlare, lei gli poggiò la testa sulla spalla, e con una vocetta roca mormorò a fatica, «Che almeno mi resti qualcosa di te quando sarai partito, Havzhiva».

Fu lui allora a piangere di dolore e di vergogna, mormorando, «Sì, sì!». Ma quella notte rimasero allacciati l'uno all'altra, cercando di consolarsi a vicenda, finché scivolarono nel sonno come bambini.

«Che vergogna,» disse Granito, con voce dolente.

«Sei stato tu a provocare tutto questo?» chiese seccamente la sorella.

«Come faccio a saperlo? Può darsi. Prima Mezha, adesso mio figlio. Sono stato forse troppo severo con lui?»

«No, no.»

«Troppo indulgente, allora! Non l'ho saputo educare. Perché è così pazzo?»

«Non è pazzo, fratello. Lascia che ti spieghi. Da bambino chiedeva sempre "Perché? Perché?" come fanno tutti i bambini. E io gli rispondevo. Come fanno tutti, com'è giusto fare. Lui capiva. Ma la sua mente non conosce requie. Sarei anch'io come lui, ma mi controllo. Quando stava imparando le tradizioni del Sole chiedeva sempre: perché così? Perché così e non in un altro modo? E io gli spiegavo: perché nelle nostre azioni quotidiane, e nel modo in cui le compiamo, rappresentiamo gli dèi. Lui replicava: allora gli dèi esistono solo attraverso le nostre azioni. È vero! gli dicevo io. Ma non era soddisfatto di questa verità. Non è pazzo, fratello, è mutilato. Non può camminare come noi. Allora, se un uomo non può camminare, cosa gli resta?»

«Star seduto a cantare,» disse Granito lentamente.

«E se non potesse star seduto? Non gli resta che volare.»

«Volare?»

«Loro hanno ali per lui, fratello!»

«Che vergogna,» disse Granito, e nascose la testa tra le mani.

Tovo si recò al tempio e inviò un messaggio per Mezha, a Kathhad: "Il tuo pupillo desidera unirsi a te". C'era una certa malignità in quelle parole. Tovo reputava la storica colpevole di aver turbato l'equilibrio di suo figlio, alterandolo al punto di mutilargli l'anima, come diceva lei. Era gelosa della donna che in pochi giorni aveva vanificato gli insegnamenti di anni. Si rendeva conto di essere gelosa, ma non se ne curava. Che importanza poteva avere la sua gelosia, o l'umiliazione di suo fratello? Ormai non restava loro che il dolore.

Mentre la barca diretta a Daha prendeva il largo, Havzhiva si guardò indietro a osservare Stse: una coltre di mille tonalità di verde, le paludi marine, i pascoli, i campi, le siepi, i frutteti. La città che si inerpicava sulle alture circostanti: mura di granito chiaro, muri bianchi di calce, tetti di tegole nere, muro sopra muro, tetto sopra tetto. Rimpicciolendosi in distanza sembrava un uccello marino là appollaiato, bianco e nero, un uccello sul suo nido. Al di sopra della città si potevano scorgere i contorni dell'isola: le macchie grigiazzurre delle paludi, gli alti colli boscosi che si perdevano fra le nuvole, bianchi stormi di uccelli acquatici in volo.

Al porto di Daha, benché si trovasse più lontano da Stse di quanto non fosse mai stato, e la gente avesse un accento strano, riusciva a capire e a leggere i cartelli. Non aveva mai visto alcun cartello prima, ma la loro funzione era evidente. Seguendoli, trovò la direzione della sala d'attesa per il volo diretto a Kathhad. I viaggiatori dormivano sulle cuccette a loro disposizione, avvolti nelle proprie coperte. Trovò una cuccetta vuota e vi si distese, infagottato nella coperta che Granito aveva tessuto per lui anni prima. Dopo una breve notte strana arrivarono alcune persone con frutta e bevande calde. Uno di loro consegnò a Havzhiva il biglietto. Nessuno dei passeggeri conosceva gli altri, erano stranieri, e tenevano gli occhi bassi. Si udirono degli annunci, e tutti uscirono all'aperto per imbarcarsi sull'apparecchio.

Havzhiva si costrinse a guardare il mondo che scivolava via sotto di lui. Con voce appena percettibile ma decisa intonò il Canto della Permanenza. Lo straniero nel sedile accanto si unì a lui.

Quando la terra balzò in alto e gli si fece incontro, chiuse gli occhi e si sforzò di continuare a respirare.

Uno per uno uscirono dal velivolo su una specie di piattaforma nera su cui stava piovendo. Mezha gli corse incontro nella pioggia, chiamandolo per nome. «Benvenuto, Havzhiva, Uomo del mio Popolo! Andiamo! C'è un posto per te alla Scuola.»

Kathhad e Ve

Al terzo anno di corso a Kathhad, Havzhiva imparò molte cose che lo sconcertavano. La sua istruzione precedente era stata difficile, ma non stancante. Era tutta basata su miti e paradossi, e aveva un senso. La nuova istruzione era basata su fatti e ragionamenti, e non aveva senso.


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