— Evidentemente sta parlando di un altro individuo — ipotizzò il capitano freddo. Il suo capo lo guardò esasperato, e lui suggerì in tono ragionevole: — Provi a passare a un altro argomento. Gli domandi delle colture.
Millisor annuì. — Le colture ovariche umane spedite ad Athos dai laboratori biologici dei Bharaputra. Che cosa ne avete fatto?
Ethan cominciò a descrivere, nei più minuti particolari, tutti i test a cui aveva sottoposto il materiale quel memorabile pomeriggio. Con crescente disappunto notò che i suoi catturatori non sembravano molto compiaciuti da quella narrazione: erano disgustati, e stupefatti, e infine irritati, ma per nulla felici. E lui desiderava soltanto renderli felici…
— Altri discorsi senza senso — lo interruppe il capitano freddo. — Che significano queste scempiaggini?
— Possibile che riesca a resistere alla droga? — si domandò Millisor, scrutandolo con poca simpatia. — Gliene faccia un’altra dose.
— È pericoloso, se lei pensa ancora di rimandarlo in strada con un vuoto di memoria. E cominciamo a essere a corto di tempo per modificare questa parte del piano.
— Qualunque parte del piano può essere cambiata. Se quel carico è già arrivato su Athos ed è stato distribuito, potremmo non avere altra scelta che passare a un’operazione militare, a meno che non decidessimo di limitarci al raid di un commando per distruggere i loro Centri di Riproduzione. Un attacco militare vero e proprio ci costerebbe sei o sette mesi di preparativi… è chiaro che dovremmo sterilizzare l’intero dannato pianeta per essere sicuri di aver eliminato tutto quanto.
— Nessuno ne sentirebbe la mancanza. — Il capitano freddo scrollò le spalle.
— Sì, ma ci costerebbe molto. E non sarebbe facile mantenere l’operazione sotto silenzio.
— Nessun superstite, nessun testimone.
— Ci sono sempre superstiti ai massacri. Fra i vincitori, se non altro. — Gli occhi di granito fissarono il capitano freddo, che grugnì un riluttante assenso. — Gliene faccia un’altra dose.
Un fremito nel braccio sinistro di Ethan. Con metodica insistenza e senza dargli un attimo di requie, i due uomini continuarono a fargli domande sulla spedizione del materiale ovarico, sui suoi superiori, sull’organizzazione di cui faceva parte e sul lavoro che gli era stato affidato.
Ethan cominciò a balbettare. La stanza si espandeva e si restringeva, la testa gli girava come una trottola, i suoi occhi si torcevano nelle orbite come per fissarsi a vicenda. — Oh, io vi amo, vi amo tutti! — gemette, e vomitò con violenza quel poco liquido che aveva nello stomaco. Poi svenne.
Riprese i sensi sotto la doccia. Quando fu riportato sulla sedia gli iniettarono una droga diversa, che invece di renderlo espansivo come l’altra lo riempì di terrori senza nome, e facendo leva sul suo spavento i due lo interrogarono interminabilmente su Terrence Cee e sulla sua missione, sia insieme che uno alla volta.
Sempre più delusi dalle risposte che ottenevano i suoi catturatori gli diedero una terza droga, il cui effetto fu d’incrementare le percezioni sensorie di tutti i suoi nervi; poi gli applicarono alle palpebre e agli organi genitali degli strumenti che non lasciavano segni ma gli procurarono un’indescrivibile agonia. Lui disse loro tutto ciò che sapeva, rispose a ogni domanda (sarebbe stato lieto di dire ciò che volevano sentirsi dire, se solo avesse avuto un indizio di cos’era) ma i due erano spietatamente esperti, quasi chirurgici, nel mettere alla prova la sincerità delle sue risposte con serie di domande incrociate. Ethan divenne cera molle nelle loro mani, quasi frenetico nella sua ansia di accontentarli, finché i suoi sensi esplosero e cadde preda di un attacco di convulsioni così violento che per poco non gli bloccò il cuore. A questo punto i due decisero di rinunciare.
Ethan giacque di traverso sulla sedia di plastica, nudo e bagnato di sudore gelido, sotto shock, fissandoli con pupille dilatate che non vedevano più molto bene.
Il colonnello Millisor lo guardò con un grugnito di disgusto. — Maledizione, Rau! Questo bastardo ci ha fatto perdere tempo e basta. Il carico che ha ricevuto su Athos non è affatto quello che era stato spedito dai laboratori Bharaputra. Terrence Cee è riuscito a metterci le mani sopra, in qualche modo. A quest’ora potrebbe essere in qualsiasi punto della galassia.
Il capitano mugolò un assenso. — E pensare che eravamo così vicini a chiudere la faccenda, sul Gruppo Jackson! Ma no, dannazione. Doveva essere Athos. Tutti siamo stati d’accordo: avrebbe dovuto essere Athos.
— Può ancora essere Athos. Un piano dentro il piano… dentro un altro piano. — Millisor si massaggiò stancamente il collo, e d’un tratto apparve molto più vecchio di quello che Ethan aveva dapprima creduto. — Il defunto Dr. Jahar ha fatto un lavoro troppo buono. Terrence Cee è tutto ciò che Jahar aveva promesso… fuorché leale. Be’, di questo tipo noi non ne abbiamo più bisogno. Lei è sicuro che la macchia scura in quei circuiti non fosse solo un po’ di untume?
Il capitano fece per dare una risposta indignata, poi guardò Ethan come se non fosse più un essere umano ma un pezzo di carne appeso a un gancio nel frigorifero di una macelleria.
— Non era untume. Ma a questo punto possiamo star certi che costui non è neppure un agente di Terrence Cee. Pensa che potremmo usarlo come specchietto per le allodole, tanto per dare loro un bersaglio?
— Se solo fosse un agente — disse Millisor con rammarico. — varrebbe la pena di fare un tentativo. Dato che evidentemente non lo è, a noi non serve. — Guardò il suo orologio da mignolo. — Mio Dio, ci abbiamo lavorato sette ore? Ormai è troppo tardi per cancellargli la memoria e lasciarlo andare. Consegnalo a Okita. che lo porti da qualche parte e organizzi la cosa in modo che sembri un incidente.
Il molo dove attraccavano le navi da carico era freddo e buio in quell’ora antelucana. Pochi lampioni spandevano luce gialla sulle paratie, delineando le sagome silenziose delle gru e dei carrelli trasportatori immobili nei vicoli accanto ai magazzini. Le passatoie metalliche s’inarcavano alte nel vuoto, emergendo fra i vapori che sfuggivano dalle tubature e incrociandosi nella penombra, fitte come ragnatele. Misteriosi oggetti meccanici pendevano qua e là fra i cavi, come vittime preservate da gelidi ragni d’acciaio.
— Qui dovrebbe essere abbastanza alto — grugnì l’uomo di nome Okita. Era d’aspetto anonimo quanto il capitano Rau, ma ancor più massiccio e muscoloso. Un gesto rude gli bastò per alzare Ethan in ginocchio sul pagliolato metallico. — Bevi ancora un po’ di questo, avanti.
L’individuo mise a forza un tubo nella bocca di Ethan e strizzò il bulbo, per l’ennesima volta. Gorgogliando semisoffocato lui fu costretto a inghiottire il brandy da poco prezzo, che in gola bruciava come il fuoco. Altro liquore gli fu versato sulla maglia e sui pantaloni. La robusta mano che lo sosteneva si aprì, lasciandolo afflosciare al suolo. — Digerisci anche quello, per un minuto — gli consigliò Okita, come se lui avesse possibilità di scelta in merito.
Ethan appoggiò le dita sui fori del pagliolato su cui giaceva, umido e sporco di grasso, e guardò attraverso di esso la pavimentazione plastica del molo, venti o ventidue metri più in basso. Sembrava ondeggiare e vibrare come una cosa viva, oltre il velo di vapore che usciva da qualche valvola difettosa sotto di lui. Nella sua mente stordita tornò l’immagine della sua Aerostar De Luxe che si schiantava al suolo, all’incirca dalla stessa altezza.
Il sicario e uomo di fatica del capitano Rau si appoggiò alla ringhiera di sicurezza, guardò anch’egli in basso e sospirò con aria poco soddisfatta. — Non mi è mai piaciuto ammazzare un uomo così, voglio dire buttandolo nel vuoto e basta — disse in tono discorsivo. — Non è una cosa sicura, capisci? Lasciandoti cadere a testa in giù, due metri dovrebbero essere abbastanza per spaccarti il cranio. Però ho sentito di un tipo che è caduto per trecento metri in una cava di ghiaia ed è rimasto vivo. Dipende da dove vai a colpire, immagino. — Il suo sguardo blando perlustrò il molo, verso le uscite e la strada centrale, come se sospettasse la presenza di un guardiano notturno. — Qui tengono la gravità artificiale più leggera, per via delle merci. Sembra strano, ma gli costa di più. Penso proprio che dovrò romperti il collo prima di buttarti giù — decise Okita, in tono ragionevole. — Mi spiace farti perdere il brivido del volo, ma lo faccio per te, credimi. Non ti piacerebbe restare ad agonizzare laggiù, soltanto ferito. Giusto?