Appena si fu riposato e orizzontato lasciò la panchina e s’avviò nel corridoio, a passi lenti. All’improvviso il suo cubicolo gli appariva pieno di attrattive. Qualcosa da mangiare ordinato al distributore automatico collegato con la dispensa dell’albergo, una doccia, e poi a letto. Basta con le esplorazioni avventurose. Il giorno dopo si sarebbe occupato solo del lavoro per cui era lì. Trovare le informazioni, scegliere il fornitore, acquistare un biglietto sulla prima nave in partenza…

Sul marciapiede a poca distanza dall’albergo, un uomo vestito con anonimi pantaloni grigi e una giacca sportiva dello stesso colore vide arrivare Ethan e gli andò incontro con un sorriso cordiale. — Buongiorno, signore. Lei è il dottor Urquhart? — disse. E mentre lui annuiva, lo sconosciuto lo prese per un polso.

Per educazione Ethan rispose al suo sorriso, ma quei modi strani lo stupirono. Poi s’irrigidì con un sussulto, e aprì la bocca in un grido d’indignazione e di protesta quando l’hypospray che l’altro aveva estratto di tasca gli fu sparato nel braccio. Il tempo di un battito di cuore e la sua bocca si rilassò, il grido gli morì in gola. L’uomo lo guidò dolcemente verso l’auto a bolla in attesa all’ingresso di un corridoio tubolare.

Ethan si sentiva i piedi leggeri come palloncini di gas. Sperò che l’uomo non lo lasciasse andare, altrimenti sarebbe volato su fino al soffitto e sarebbe rimasto là. a testa in giù, e tutto ciò che aveva in tasca sarebbe caduto sul marciapiede. La superficie a specchio dello sportello scivolò in basso, richiudendosi davanti al suo sguardo vacuo come la membrana nittitante sugli occhi di un pipistrello insonnolito.

CAPITOLO QUARTO

Ethan riprese i sensi in una camera d’albergo molto più vasta e più lussuosa della sua, o quantomeno l’aspetto non personalizzato di quell’arredamento a base di metalli argentei e dorati gli diede l’impressione che si trattasse di una camera d’albergo. La lucidità scese nella sua mente con la pesante lentezza di una colala di miele, riempiendone solo una parte. Il resto di lui continuò a fluttuare in una dolce, languida euforia. Nelle lontane profondità del suo cervello, o forse in fondo alla colonna vertebrale, qualcuno gemeva e urlava e si torceva freneticamente, come un animale in gabbia, ma non c’era alcuna possibilità che uscisse da quella trappola. La sua logica vischiosa notò con indifferenza che aveva i polsi legati ai braccioli di una scomodissima sedia di plastica, e che certi muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena gli dolevano molto. Di questi fatti prese visione con indifferenza.

Assai più interessante fu la vista dell’uomo che uscì dalla stanza da bagno sfregandosi vigorosamente la faccia umida e arrossata con un asciugamano. Occhi grigi come pezzi di granito, corti capelli grigi. un corpo solido e avvezzo alla ginnastica, altezza media: non molto dissimile dall’individuo che aveva prelevato Ethan dal corridoio e che ora. seduto lì accanto su una sedia antigravità, sorvegliava con attenzione il prigioniero.

Il rapitore di Ethan era un tipo talmente qualsiasi che lui non aveva neppure captato la sua presenza prima di mettere a fuoco lo sguardo proprio sulla sua grigia figura. Ma Ethan era adesso fornito di una strana visione-interiore, come quella a raggi X, grazie a cui poteva vedere che le ossa di costui non contenevano midollo, bensì ghiaccio duro come la roccia e freddo quanto lo spazio fuori dalla stazione. Ethan si chiese come potesse fabbricare globuli rossi in quelle singolari condizioni biologiche. Forse nelle sue vene scorreva azoto liquido. Entrambi gli uomini avevano comunque molto sex-appeal, e lui avrebbe voluto poter alzarsi in piedi per baciarli.

— È pronto a rispondere, capitano? — domandò l’uomo con l’asciugamano, accennando a lui.

— Sì, colonnello Millisor — rispose l’altro. — Gliene ho fatta una dose intera.

L’uomo uscito dal bagno grugnì e gettò l’asciugamano sul letto, accanto al contenuto delle tasche di Ethan ed ai suoi vestiti, che si trovavano tutti quanti lì. Soltanto allora lui si rese conto d’essere completamente nudo. Sul letto c’erano alcune banconote di Stazione Kline, un pettine, un fazzoletto, il piccolo proiettore della mappa, la carta di credito contenente i fondi di cui Ethan disponeva per acquistare le culture, in dollari betani… a quella vista, l’animale in gabbia nel retro del suo cervello ululò e gemette. L’individuo toccò quei pochi oggetti con una smorfia di disgusto. — Questa roba è pulita?

— Ah. Adesso sì, ma prima non tanto — disse il capitano dalle ossa fredde. — Guardi questo. — Prese il proiettore olovideo, svitò la parte posteriore e collegò un visore elettronico sopra i suoi circuiti interni. — Gli abbiamo ripulito le tasche nella zona dei moli, prima di portarlo qui. Vede questa chiazza nera? È stata causata dall’acido contenuto in una membrana di lipidi polarizzati. Quando il raggio del mio scanner l’ha attraversato, la membrana si è depolarizzata e dissolta, e l’acido ha bruciato… qualunque cosa ci fosse qui. Una microtrasmittente, direi, forse unita a un registratore audio-video. Un ottimo lavoro, mascherato nei circuiti standard del proiettore di mappe, il quale fra l’altro nascondeva il rumore elettronico della microspia. È un agente, non c’è dubbio.

— Siete riusciti a rintracciare il collegamento con la sua base?

Il capitano freddo scosse il capo. — No, purtroppo. Come le ho detto, la microtrasmittente si è autodistrutta al momento della scoperta. Però quelli in ascolto non possono più riceverlo, visto che li abbiamo accecati. Adesso loro non sanno dove si trova.

— E questi "loro" chi sono? Terrence Cee?

— Così possiamo sperare.

L’uomo dagli occhi di granito, quello che il capitano freddo aveva chiamato colonnello Millisor, grugnì ancora. Venne di fronte a Ethan e si piegò a fissarlo negli occhi. — Qual è il tuo nome?

— Ethan — rispose serenamente lui. — E il tuo?

Millisor ignorò quell’aperto invito a socializzare. — Il tuo nome completo, e il tuo grado.

Questo colpì un ricordo non sgradevole del suo passato, ed Ethan raddrizzò fieramente le spalle: — Sergente maggiore Ethan CJB-8 Urquhart. Reparto Medico del Reggimento Blu. matricola U-221-767, signore! — esclamò guardando con un sorriso eccitato il suo interlocutore, che s’era ritratto con aria sbalordita. — In congedo, signore! — aggiunse nello stesso tono, dopo un momento.

— Tu non sei un medico?

— Oh, sì — disse orgogliosamente lui. — Dove ti fa male? Fammi vedere la lingua.

— Detesto il penta-rapido — grugnì Millisor al collega. — Li fa parlare troppo.

Il capitano freddo ebbe un sorrisetto. — Sì, ma se non altro può stare sicuro che non tengono nascosto nulla.

Millisor sospirò dal naso, a labbra strette, e si volse di nuovo a Ethan. — Rispondi. Sei qui per incontrare Terrence Cee?

Lui lo guardò un momento, confuso. Vedere Terrence, lì? L’unico Terrence che lui conoscesse era un tecnico elettronico del Centro di Riproduzione. — No. Loro non l’hanno mandato qui — spiegò.

— Loro chi? Chi è che non l’ha mandato? — chiese subito Millisor, protendendosi in avanti.

— Il Consiglio.

— All’inferno. — Il capitano scosse il capo, preoccupato. — Possibile che abbia trovato un nuovo finanziatore, così presto dopo il Gruppo Jackson? Non può aver avuto il tempo, né i contatti necessari! Io stesso ho controllato ogni…

Millisor gli chiese il silenzio alzando una mano e tornò a interrogare Ethan. — Dimmi tutto ciò che sai su Terrence Cee.

Doverosamente lui cominciò a farlo, cominciando dal giorno in cui Terrence era venuto per la prima volta nel suo laboratorio a riparare una centrifuga. Dopo cinque minuti Millisor, sulla cui faccia c’era una perplessità sempre più sfumata di rabbia, lo colpì con un ceffone. — Basta così!


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