Lei rimase immobile per qualche momento. — Ah… sul serio? Strano. Veramente strano. Questa notizia è del tutto nuova per me. — I suoi occhi brillavano come specchi. Pochi istanti dopo era già uscita.

CAPITOLO QUINTO

Ethan si svegliò di soprassalto, con il fiato mozzo e la netta impressione che qualcosa gli fosse piombato sullo stomaco. Aprì gli occhi e si guardò attorno, del tutto incapace di riconoscere il luogo in cui si trovava. Poi vide che in piedi accanto a lui c’era la comandante Quinn, che lo osservava nella debole luce della sua lampada elettrica, con un pollice uncinato sulla fondina vuota dello storditore. Alzando una mano a palpeggiarsi l’addome scoprì che la cosa di cui aveva sentito il peso era un fagotto. Lo svolse con un grugnito, sbattendo le palpebre; si trattava di due tute rosse del tipo usato nella stazione, di misura diversa, e un paio di stivali di plastica da operaio.

— Mettiti una di queste — ordinò la mercenaria. — e cerca di fare presto, per favore. Credo di aver trovato il modo di liberarci del cadavere, ma bisogna arrivare sul posto prima del cambio di turno, se voglio trovare di servizio le persone giuste.

Ethan scelse una delle due tute e la indossò, dopo aver annaspato sulle insolite cerniere a pressione. Gli stivali erano troppo larghi, ma fu mentre si chinava per infilarseli che un giramento di testa lo fece cadere sui cuscini. Senza nascondere una certa impazienza Quinn lo aiutò ad alzarsi, lo fece sedere sopra il contenitore e accese di nuovo la barella antigravità. A cavalcioni su quel cilindro giallo Ethan aveva la stupida impressione d’essere un bambino di cinque anni, ma si sentiva più riposato e lottò per ritrovare energia. Dopo che la bruna mercenaria ebbe controllato in corridoio salì anche lei in sella al contenitore, che non si abbassò di un millimetro sotto il suo peso; poi i due lasciarono quei locali non visti come quando c’erano entrati e si avviarono nei labirinti periferici della stazione.

Se non altro non aveva più la sensazione che il suo cervello fosse sospeso in un vaso di sciroppo, si disse Ethan. Il mondo scorreva attorno a lui con aspetto e velocità normale, e nei suoi occhi non esplodevano più lampi di colore infuocato che gli lasciavano tracce pulsanti nella rètina. Ma l’elenco di novità positive si fermava lì, perché le tute da operaio che Quinn gli aveva portato per nascondere i suoi abiti athosiani erano di un rosso abbagliante. E un’onda di nausea minacciava di sollevarsi dal fondo del suo stomaco verso la gola, inarrestabile come una marea lunare. Si distese in avanti, per abbassare il suo centro di gravità rispetto alla barella fluttuante, e desiderò dolorosamente qualcosa di più delle tre ore di sonno che la bruna mercenaria gli aveva concesso.

— La gente che ci vede passare mi noterà, con questa roba addosso — obiettò, mentre giravano in un corridoio più frequentato.

— Non ti preoccupare. — Lei si girò a indicare la tuta con un cenno del capo. — Quando uno sta trasportando un contenitore per merci, quell’abbigliamento è come il mantello dell’invisibilità. Il rosso è usato dalle squadre dagli addetti ai Moli e Portelli. Chi ti vede penserà che stai portando il contenitore da qualche parte. Finché non apri bocca, o non agisci come uno straniero.

Passarono dentro un lunghissimo stanzone dove migliaia di carote erano allineate fittamente su una grata, con le radici coperte di peluzzi bianchi immerse nella nebbia emessa dagli spray idroponici e le foglioline verdi alla sommità esposte alla luce. L’aria del locale (Quinn gli assicurò che stavano prendendo una scorciatoia) era fredda e umida, e odorava di sostanze chimiche.

Lo stomaco di Ethan gorgogliò. Quinn, che guidava la barella col telecomando, si girò a guardarlo. Lui scosse il capo. — Credo di aver fatto uno sbaglio a mangiare quella roba con le noccioline — mormorò cupamente.

— Be’, per l’amor del cielo, non vomitarla qui — lo pregò lei. — Se proprio devi, apriamo il contenitore e…

Ethan deglutì con fermezza. — No.

— Pensi che una carota ti aggiusterebbe lo stomaco? — domandò lei con sollecitudine. — Si allungò di lato, facendo ondeggiare follemente il loro mezzo di trasporto, e staccò una carota dalla grata. — Ecco, prova ad assaggiarla.

Lui esaminò dubbiosamente il tubero giallo irto di radichette e di foglie, quindi se lo infilò in una delle molte tasche della tuta. — Forse più tardi.

Oltrepassarono dozzine di banchi di ortaggi in crescita e sul fondo del locale Quinn fece sollevare la barella fino a un’uscita situata a qualche metro d’altezza. VIETATO L’INGRESSO era scritto sul portello in scintillanti lettere verdi.

La mercenaria ignorò il divieto con un’allegra indifferenza giovanile, che la dipinse agli occhi di Ethan come una creatura asociale. Si girò a guardare il portello mentre si richiudeva dietro di loro con un sibilo d’aria compressa. VIETATO L’INGRESSO c’era scritto anche da quella parte. Dannazione pensò innervosito, se infrango la legge potrei finire in prigione, qui su Stazione Kline…

Nel corridoio successivo Quinn fece abbassare la barella al suolo davanti a una porta su cui una targa diceva: CONTROLLO ATMOSFERICO, VIETATO L’INGRESSO — SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. Da ciò Ethan comprese che sarebbero entrali proprio lì.

La mercenaria scese dal contenitore e si alzò in piedi. — Ora qualunque cosa accada, cerca di non aprir bocca. Il tuo accento ti tradirebbe subito. A meno che tu non preferisca restare qui fuori con Okita finché non tornerò a occuparmi di voi…

Ethan si affrettò a scuotere il capo, allarmato dalla visione di se stesso che cercava di spiegare a un funzionario di passaggio che lui non era, nonostante le apparenze contrarie, un omicida alla ricerca di un posto dove seppellire un cadavere.

— E va bene. Due mani in più potranno farmi comodo. Ma stai pronto a eseguire subito i miei ordini, se sarà necessario. — Quinn aprì la serratura a combinazione e attraversò la soglia, seguita dalla barella antigravità come da un cane al guinzaglio.

Fu come penetrare nel palazzo di una sirena, sotto il mare. Linee iridescenti di luci ed ombre serpeggiavano con morbida lentezza sul pavimento, sul soffitto e… Ethan restò senza fiato per lo spavento nel guardare quelle pareti: barriere trasparenti alte tre piani dietro cui c’era un oceano d’acqua cristallina, nella quale cresceva un’oscillante foresta di alghe verdi. Miriadi di bollicine argentee sciamavano allegramente fra le fronde di quelle piante acquatiche, ora fermandosi, ora trascinate via dalla corrente.

Un anfibio lungo mezzo metro sbucò da quella giungla subacquea e scese a guardare Ethan con occhi inespressivi. Aveva una pelle nera e liscia come la plastica, e zampe e coda a strisce rosse. Dopo qualche istante l’anfibio s’allontanò con movimenti serpentini e sparì di nuovo nel verde.

— Il sistema di riciclaggio ossigeno/anidride carbonica della stazione — spiegò a bassa voce la comandante Quinn. — Le alghe sono bio-programmate per la massima produzione d’ossigeno, mentre assorbono anidride carbonica e altri gas. Ma naturalmente crescono. Così, per non dover svuotare ogni tanto l’intera camera e ripulirla dalle alghe, sono stati immessi dei tritoni geneticamente modificati che le mietono. Ma naturalmente ci si trova con un sacco di tritoni in sovrappiù…

Quinn tacque, quando un tecnico in tuta azzurra spense un monitor della consolle a cui sedeva e si girò verso di loro, accigliato. Lei agitò la mano con un sorriso civettuolo. — Salve, Dale. Ti ricordi di me? Elli Quinn. Dom mi ha detto che avrei potuto trovarti qui.

— Oh, Elli! — L’uomo cambiò subito espressione e si alzò. — Sicuro, Dom mi ha detto che ti ha incontrato. Diavolo, è un secolo che non ci vediamo… — Venne verso di lei come se volesse abbracciarla, poi esitò e ripiegò su un’energica stretta di mano.


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