La carota era diventata piombo nel suo stomaco. — Ma se ora lei vuole liberarsi così anche di Okita…
— Forse il mese prossimo mangerò solo roba d’importazione — sussurrò Quinn. — Ora taci.
F. Helda li interpellò in tono ostile: — Cosa siete rimasti a fare, voi due? — Guardò Ethan. — Lei non deve tornare al suo lavoro?
Quinn batté una mano sugli scatoloni verdi. — Devo riportare questa barella dove l’ho presa.
— Ah — disse la sorvegliante ecologica. Fece un sospiro, borbottò qualcosa fra sé, si fece dare da Quinn il dischetto che le aveva consegnato Dale, e poi batté un nuovo codice di programmazione sul pannello di comando del bio-degradatore. Andò a prendere un trattore a mano, aspettò che Quinn avesse tolto il nastro che fissava il carico sulla barella e prelevò uno dei tre scatoloni verdi. Poi spalancò di nuovo il largo portello della macchina. L’oggetto fu sollevato davanti all’apertura, e F. Helda lo spinse dentro con le sue mani robuste. Dalle viscere del degradatore provenne un lungo cupo ronzio. Al primo scatolone seguì subito il secondo, con rapida efficienza. Quindi la sorvegliante ecologica si occupò del terzo, quello etichettato con 100,62 kg di peso. Ethan trattenne il respiro.
Il contenuto del terzo scatolone arrivò sul fondo della macchina con un tonfo assai più forte dei precedenti.
— Cosa diavolo… — mormorò F. Helda, e tornò verso il portello. La comandante Quinn sbarrò gli occhi, e la sua mano destra si spostò istintivamente verso la fondina dello storditore, vuota.
— Ehi, non è uno scarafaggio quello? — esclamò Ethan, cercando disperatamente di imitare l’accento dell’inglese che si parlava su Stazione Kline.
F. Helda girò su se stessa. — Dove?
Ethan indicò un angolo della stanza, dalla parte opposta rispetto al bio-degradatore. Sia la sorvegliante ecologica che la comandante Quinn andarono a ispezionare. F. Helda si mise in ginocchio e passò un dito lungo la fessura fra il bordo inferiore di un pannello e il pavimento. — È sicuro di averlo visto? — domandò.
— È stato un movimento rapido — mormorò lui. — Sono veloci, quegli insetti…
— Qui dentro non c’è mai stato uno scarafaggio da quando ci lavoro io — disse la femmina, accigliata come se quella novità fosse colpa sua. — Può darsi che lei abbia un bruscolo in un occhio, ecco cosa penso, caro signore.
Ethan si strinse nelle spalle e non osò dir altro.
— Comunque, meglio chiamare la Disinfestazione — brontolò F. Helda, rialzandosi. Tornando indietro premette, di passaggio, il pulsante di avvio del bio-degradatore. Poi andò ad accendere un videotelefono e compose un numero. — Adesso potete andarvene, voi e la vostra barella. Cosa c’è in quel contenitore giallo?
Quinn aprì il coperchio. — Tritoni anche qui. Roba scelta, però. Ne vuole un paio?
— Naah, mia madre me li faceva a pranzo e a cena. Li detesto.
Dieci secondi dopo erano in corridoio. Mentre fluttuavano verso la periferia della stazione a cavalcioni del contenitore, la comandante Quinn disse: — Mio Dio, dottore, la tua è stata un’ispirazione geniale… oppure avevi visto davvero uno scarafaggio?
— No, è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. E quella femmina sembrava il tipo di persona che odia gli insetti.
— Puoi scommetterci. — Gli occhi di lei scintillarono divertiti quando annuì.
— Hanno dei problemi con gli scarafaggi, qui? — domandò Ethan.
— Non più che in tutti gli altri posti colonizzati dall’uomo. Ma certi tipi di scarafaggi mutanti, sopravvissuti a ogni insetticida, mangiano perfino il rivestimento dei cavi elettrici e causano corti circuiti. Pensa al pericolo d’incendio su una stazione spaziale e capirai perché F. Helda si è messa in agitazione a quel modo.
Quinn controllò il suo orologio. — Mio Dio, dobbiamo riportare questa barella e il contenitore al Molo 32. — Ridacchiò fra sé. — Tritoni freschi, tritoni di prima scelta, chi vuol comprare i miei tritoni?… Ma perché liberarsene? Dopotutto sono ottimi.
La mercenaria fece compiere al loro mezzo di trasporto una brusca svolta a destra in una traversa, facendo quasi cadere Ethan, e accelerò. Dopo un centinaio di metri fermò la barella davanti a una porta la cui targa diceva: MAGAZZINI REFRIGERATI — INGRESSO 297-C.
Nell’interno, dietro un bancone, una giovane impiegata grassoccia sedeva a guardare un olovisore, mangiucchiando scaglie di proteine fritte che tirava fuori da una confezione.
— Vorrei affittare una cella frigorifera — disse la mercenaria.
— Questo impianto è solo per i cittadini della stazione, signora — rispose la giovane femmina, dopo uno sguardo invidioso alla linea snella e al volto attraente di Elli Quinn. — Se lei si rivolge al suo albergo, sulla Passeggiata dei Viaggiatori troverà un…
Quinn estrasse di tasca una carta d’identità e la sbatté sul bancone. — Una di quelle piccole da due metri cubi potrà bastare. E vorrei anche uno scatolone di plastica. Pulito, mi raccomando.
La giovane impiegata guardò la carta d’identità. — Ah, oh. — Sparì nel retro del magazzino e tornò qualche minuto dopo con un carrello fluttuante su cui c’era uno scatolone di plastica.
La mercenaria firmò con l’impronta del pollice sullo schermo di un computer, poi tornò accanto a Ethan.
— Vediamo di stenderli con ordine, eh? Voglio che il cuoco resti favorevolmente impressionato quando li tirerà fuori.
Distesero i tritoni bene in fila, uno strato sopra l’altro. La giovane impiegata guardò per qualche secondo, storse il naso e ritornò alla sua trasmissione olovisiva, apparentemente un film girato sulla superficie di un pianeta molto simile alla Terra.
Avevano fatto giusto in tempo, vide Ethan: alcune delle loro vittime anfibie si stavano già risvegliando. Si sentiva quasi più dispiaciuto per loro di quanto lo era stato per Okita. L’impiegata venne a prelevare lo scatolone e lo portò via.
— Non soffriranno a lungo, vero? — chiese Ethan mentre uscivano, gettando uno sguardo dietro di sé.
La comandante Quinn sbuffò. — Io ci farei la firma, per una morte così rapida. Andranno nel più grande frigorifero dell’universo… lo spazio esterno. Credo proprio che li porterò all’ammiraglio Naismith, più tardi, quando le cose si saranno risolte.
— Le cose — le fece eco Ethan. — Già. Penso che lei ed io dovremo fare due chiacchiere su queste cose. — E le sue labbra si strinsero testardamente.
Quelle di lei si piegarono in un sorriso. — Faccia a faccia, cuore a cuore — assentì cordialmente.
CAPITOLO SESTO
Dopo aver riportato la barella nello scomparto del pronto soccorso del Molo 32, la comandante Elli Quinn condusse Ethan lungo vari corridoi secondari della stazione fino a un albergo dove aveva una camera non molto più spaziosa della sua. L’albergo, credette di capire Ethan, si trovava in una zona interna della Passeggiata dei Viaggiatori, anche se non gli era parso d’aver attraversato il quartiere riservato ai turisti. Durante il percorso Quinn lo aveva fatto restare indietro, o l’aveva parcheggiato senza preavviso in una traversa intanto che lei andava avanti a esplorare, oppure l’aveva preceduto camminando con fare noncurante a braccetto con un’amica da lei incontrata per strada, gesticolando allegramente con la mano libera. Ethan poteva solo augurarsi che la mercenaria sapesse ciò che stava facendo.
Ad ogni modo gli parve che Elli Quinn fosse convinta di averlo portato con successo in una specie di base sicura, perché quando furono in albergo chiuse la porta si rilassò visibilmente, scalciò via le scarpe, si tolse la blusa e andò subito ad accendere la consolle dei servizi in camera.
— Ecco qua. Vera birra — disse, porgendogli un bicchiere colmo di liquido ambrato dove aveva versato un paio di pillole prese dal suo medikit dendarii. — È roba d’importazione.
L’odore accrebbe la salivazione di Ethan, ma invece di portarsi il bicchiere alle labbra lo guardò insospettito. — Le spiace se chiedo cosa ci ha messo dentro?