— Guarda di non socializzare troppo sul lavoro, caporale… non è la prima volta che mi costringi a dirtelo — brontolò, passandole accanto per andare ad aprire un armadietto. — Mettiti il cinturone, abbiamo una chiamata.

L’agente giovane indirizzò smorfie buffe alla schiena della collega, e sussurrò a Ethan: — Alle 24.00, allora, d’accordo? — Si alzò in piedi, poi assunse un atteggiamento più professionale quando l’altra tirò fuori dall’armadietto due cinturoni a cui erano appese grosse fondine. — È una cosa seria, signora?

— Dobbiamo unirci a una caccia all’uomo, in corso al Livello C7 e C8. Un prigioniero è scomparso dal Reparto Detenzione.

— È evaso?

— Non mi è stato detto "evaso". Mi è stato detto solo "scomparso" — L’agente anziana ebbe una smorfia acida. — Quando Echelon insiste con questa sua terminologia strana, la situazione mi piace poco. Il detenuto è quel mangiafango arrestato stamattina per possesso illegale di un distruttore neuronico. Io ho guardato quell’arma, e una cosa posso dirtela: è una pistola militare, ed è stata usata molto spesso. — Consegnò alla collega uno dei due grossi storditori, controllò la carica del suo e si allacciò il cinturone.

— Roba militare, dici? La cosa puzza, allora. — La caporale esaminò la sua uniforme allo specchio, si rassettò i capelli con cura e poi diede anche lei uno sguardo alla carica della sua pistola.

— Proprio così, e non poco. Scommetterei un mese di paga che lui e quell’altro tipo sono due agenti di qualche servizio militare, due spie, con tanto di documenti falsi.

— Dovrei averci fatto l’abitudine, ma non è così. Quei rompitasche impestano le stazioni spaziali peggio dei topi. Pensi che abbiano dei complici o siano soltanto in due?

— Spero che non siano un’intera banda. È gente imprevedibile, violenta, capace di tutto, che mette in pericolo la sicurezza di chiunque si trovi coinvolto nelle loro attività. E quando tu li arresti per aver infranto la legge, ecco che qualche ambasciata subito protesta e qualcuno paga uno stuolo di avvocati per tirarli fuori dai guai, mentre qualche altro mangiafango fa di tutto per confondere le prove a loro carico e chiudere la bocca ai testimoni… — L’agente più anziana fece segno a Ethan di uscire dalla porta. — Senta, lei, se non è una cosa urgente vada via e torni più tardi. Qui dobbiamo chiudere. — Si rivolse alla caporale: — Tu resta incollata a me, chiaro? Niente atti eroici.

— Sì, signora.

Pochi secondi dopo Ethan era di nuovo fuori, sulla balconata che circondava il chiosco, mentre le due agenti femmina si affrettavano via sul marciapiede. La bruna agente di nome Lara si girò a dargli un ultimo sguardo, vide il suo esitante cenno di saluto e sorrise gaiamente, agitando le dita di una mano verso di lui.

Tre corridoi e l’ascensore antigravità in fondo alla Passeggiata dei Viaggiatori. Su per due livelli. Alcune svolte in una zona poco frequentata fino all’albergo di Quinn. L’odore ormai familiare del corridoio, la porta in fondo a destra. Ethan si umettò nervosamente le labbra e bussò.

Nessuna risposta. Bussò ancora.

Si girò a guardare verso l’atrio, chiedendosi se…

La porta scivolò di lato con un soffio d’aria compressa. Il suo sollievo si spense alla vista del robot delle pulizie, che gli girò attorno con un ronzio indifferente e si allontanò. La stanza era pulita e vuota, anonima come se nessuno l’avesse mai occupata.

— Ma dove può essere andata? — domandò Ethan a voce alta, battendo un pugno sullo stipite per sfogare la frustrazione.

Con sua sorpresa, il robot delle pulizie si fermò. — Signore o signora, la prego di riformulare la sua richiesta — disse una voce, da una griglia della sua carrozzeria di plastica bianca.

Ethan si accostò al robot, ansiosamente. — La comandante Quinn… la persona che occupava questa camera, dov’è andata?

— Signore o signora, il cliente che occupava la camera a lei ora assegnata ha lasciato libera la camera suddetta alle ore undici zero-zero. Per ulteriori lamentele sullo stato della camera lei può rivolgersi a questa unità.

Alle undici del mattino? Doveva essere andata via pochi minuti dopo che lui era uscito, calcolò Ethan. — Oh, Dio il Padre…

— Signore o signora — lo interpellò educatamente il robot, la prego di riformulare la sua richiesta.

— Non stavo parlando con te — brontolò Ethan, passandosi una mano fra i capelli. All’improvviso si accorse di avere le lacrime agli occhi.

Il robot estruse un aspiratore sonico e ripulì qualche traccia di polvere lasciata dalle sue scarpe. — Signore o signora, ha altre lamentele da rivolgere a questa unità?

— No, no…

La macchina girò su se stessa e ronzò via lungo il corridoio.

Giù per due livelli, attraverso tre corridoi. Su per gli scalini della balconata. Le agenti della Sicurezza non erano ancora tornate. Il chiosco era chiuso e vuoto.

Ethan tornò accanto alla fontana, a cinquanta metri da lì. e attese. Stavolta avrebbe detto subito chi era alle autorità della stazione, senza tergiversare. Se Rau, sparandogli, aveva rivelato d’essere sul lato sbagliato della legalità, lui doveva di conseguenza essere sul lato giusto. Questo ragionamento sembrava logico. E in tal caso lui non doveva aver niente da temere dalla Sicurezza.

Tuttavia, se quella gente non era riuscita a trattenere Rau nel loro Reparto di Detenzione, quante probabilità avevano di ricatturarlo? Quell’individuo doveva essere esperto nel suo mestiere di spia, oltreché spietato e deciso a tutto. Ethan si sforzò d’ignorare quella riflessione, attribuendola alle paure astutamente impiantate in lui da Quinn. La Sicurezza della Stazione gli offriva le migliori possibilità. In effetti, ora che aveva irrevocabilmente offeso Quinn, la Sicurezza era la sua unica possibilità.

— Dottor Urquhart? — Una mano gli calò su una spalla.

Ethan sobbalzò come a un colpo di pistola e girò su se stesso. — Chi è lei? Che cosa vuole?

Il giovanotto biondo che gli si era avvicinato fra le aiuole intorno alla fontana lo guardò con aria di scusa. Era di altezza media, snello e robusto, vestito in uno stile a lui non familiare: camicia lunga senza maniche, larghi pantaloni allacciati alle caviglie con dei nastri, stivali di pelle d’aspetto rigonfio e floscio. — Mi perdoni. Se lei ò il dottor Ethan Urquhart di Athos, io l’ho cercata in tutta la stazione.

— Perché?

— Speravo che lei potesse aiutarmi. La prego, signore, non se ne vada… — Il giovanotto allungò una mano per fermarlo, mentre Ethan indietreggiava. — Lei non mi conosce, lo so, ma ho una richiesta urgente da fare al pianeta Athos. Lasci che mi presenti: io mi chiamo Cee, Terrence Cee.

CAPITOLO OTTAVO

Dopo un momento di sbalordito silenzio, Ethan si guardò attorno. Nessuno li stava osservando; il giovanotto biondo che lo aveva avvicinato era solo, o almeno non aveva complici nelle vicinanze. — Che cosa vuole da Athos? — gli domandò, vincendo l’impulso di allontanarsi di corsa.

— Rifugio, signore — disse l’altro. — Perché io sono un fuggiasco, non c’è dubbio su questo. — La tensione dipingeva di una luce falsa e ansiosa il suo sorriso. Il modo in cui Ethan si ritraeva davanti a lui lo rese ancor più allarmato e supplichevole. — Sull’elenco dei passeggeri della nave del censimento c’era solo il suo nome, e lì ho letto che lei è l’ambasciatore del suo pianeta all’estero. Lei può offrirmi asilo politico, non è così?

— Io… io… — Ethan alzò le mani per tenerlo lontano. — Quello è soltanto un titolo che il Consiglio della Popolazione ha pensato di attribuirmi all’ultimo momento, perché non sapevano cos’avrei trovato qui fuori. Ma io non sono un diplomatico, io sono un medico.

Cercò di calmarsi e guardò il giovanotto, che lo fissava come se volesse aggrappargli addosso. Con una parte della sua attenzione notò in lui i segni della stanchezza fisica. La faccia attraente di Cee aveva una sfumatura grìgia, gli occhi erano iniettati di sangue, e qualche tremito percorreva le sue mani lisce ed eleganti. D’un tratto Ethan fu colpito da un dubbio orribile. — Senta, uh… non mi sta per caso chiedendo di proteggerla dal Ghem-colonnello Millisor, vero?


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