Beninteso, quella tecnica non aveva funzionato nel New Jersey. Laggiù gli abitanti avevano cercato di sacrificarmi al loro dio, il Distruttore delle Città. Decisi di non pensare a quell’episodio. Passai ancora un minuto o due a farmi coraggio, poi entrai nel villaggio.
Ai margini c’erano piccole capanne, costruite in legno. Erano molto distanziate fra loro, come se gli individui che vi abitavano non fossero troppo amichevoli. Più avanti, gli edifici erano grandi e lunghi, disposti vicini gli uni agli altri. Alcuni bambini, nudi a parte la pelliccia, correvano nelle strade. Un gruppetto di tre mi vide e si fermò a fissarmi a bocca aperta. Erano abbastanza vicini da permettermi di vedere le loro facce: rotonde, piatte e coperte di pelo. Ogni faccia aveva una bocca, un naso e un paio di occhi gialli.
— Salve — dissi in tono cordiale.
I bambini strillarono e corsero via.
Proseguii fra le case. Più volte passai accanto a persone grandi. Adulti. Mi fissavano, ma non dissero niente. Non fecero nessun gesto minaccioso.
La cosa era incoraggiante. Arrivai in uno spazio aperto che sembrava trovarsi più o meno al centro del villaggio. Una piazza. Mi accosciai e rimasi in attesa. Ormai il sole era sparito e il cielo incominciava a farsi scuro. La gente si assembrava ai margini della piazza, parlando sommessamente. Sudavo. Se avessi fatto un errore, se costoro non fossero stati amichevoli, sarei morta lì.
Qualcuno si diresse verso di me: una persona alta e magra. Lui, o lei, portava una veste lunga e numerose collane. Qualcuno di importante. Uno sciamano o un capo.
Naturalmente usavo le definizioni della Terra.
Mi alzai lentamente in piedi, poi tesi le mani all’infuori. — Vengo in pace.
La persona mi osservò con cura. Finalmente allargò le mani, ripetendo il mio gesto.
E adesso che cosa sarebbe successo? Lasciamo che sia l’indigeno a deciderlo. Aspettai. La persona si tolse una collana e me la offrì. La presi. Le palline erano piccoli cilindri di rame. C’era un ciondolo: un pezzo di conchiglia intagliata a forma di pesce.
Era quasi certamente un gesto amichevole.
— Grazie. — Mi misi la collana. Adesso dovevo ricambiare. Mi sfilai lo zaino dalle spalle, poi mi chinai e l’aprii.
— Ecco. — Mi raddrizzai, porgendo una collana fatta di conchiglie. Quel particolare tipo di conchiglia, blu scuro e lucente, era stato trovato nell’oceano settentrionale del pianeta, attorno a un piccolo arcipelago che avevamo chiamato Isole Deserte. Io e Harrison Yee avevamo raccolto le conchiglie e le avevamo intagliate, usando tecniche che Harrison aveva appreso presso l’Università di Pechino, alla Facoltà di Antropologia.
L’individuo prese il mio dono, poi mi fece un cenno, si voltò e si allontanò. Lo seguii. Passammo accanto a una folla di gente che stava a guardare. Avevo la camicia intrisa di sudore.
Arrivammo davanti a una casa. La persona gesticolò di nuovo. Entrai e mi trovai in una vasta stanza lunga. Al centro ardeva un fuoco. Alla sua luce rossastra scorsi delle pareti di tronchi e travi di legno. Il pavimento era di terra o argilla.
Mi guardai attorno. Non c’era mobilia, ma c’erano mucchi di pellicce negli angoli. Lungo le pareti vidi dei paioli. Alcuni erano alti un metro. Neri e lucidissimi, scintillavano alla luce del fuoco. L’aria odorava di fumo di legna e di qualcos’altro: un aroma pungente. Guardai verso l’alto. Dalle travi pendevano mazzi di piante. Erbe aromatiche, pensai. Chissà se erano selvatiche o coltivate? Quegli individui coltivavano la terra? Avevano la ruota del vasaio? Quali metalli lavoravano oltre al rame?
Il mio ospite mi seguì all’interno. Lo guardai. Ora, alla luce del fuoco, notai le spalle curve, le mani ossute, la pelliccia che diventava grigia. Era una persona anziana, ne ero quasi certa. Gli occhi arancioni mi osservavano. Le palpebre erano pesanti, le pupille due fessure verticali.
Dopo un momento la persona parlò.
— Mi dispiace. Non conosco la tua lingua.
Il mio ospite allungò una mano e mi toccò con estrema delicatezza il viso. Non c’era pelo nella parte interna della mano. La pelle era dura e secca al tatto.
— Uh!
Io avevo i capelli tirati indietro e legati sulla nuca. La persona mi sfiorò il lato della testa, tastando la capigliatura in quel punto, poi toccò i capelli che mi ricadevano fra le scapole.
— Tsa!
Tirai indietro la mano e mi tolsi il fermaglio dai capelli, scuotendo la testa. I capelli ricaddero liberi.
Il mio ospite sussultò. Mi afferrò alcune ciocche e tirò. Per un attimo sopportai il dolore, poi dissi: — Ehi — e toccai molto delicatamente la mano pelosa.
La persona mollò la presa. Parlò di nuovo, forse per scusarsi, e mi invitò con un cenno ad avvicinarmi al fuoco.
Arrivarono altre persone, che indossavano gonnellini o tuniche. Vidi altre collane fatte di rame e cinture con fibbie di metallo. Il metallo era giallo, ottone oppure bronzo.
I nuovi arrivati stesero pellicce sul pavimento. Io e il mio ospite ci sedemmo. Qualcuno portò una ciotola piena di liquido. Il mio ospite bevve, poi mi offrì la ciotola. Era di argilla cotta, nera come i paioli e lucente. All’esterno, sotto il bordo, era inciso un disegno geometrico. Il liquido all’interno appariva scuro e aveva un odore pungente.
Mi ricordai di ciò che mi avevano detto i biochimici. Probabilmente potevo mangiare quello che mangiavano gli indigeni.
"Naturalmente ci sono un sacco di cose che non riuscirai a metabolizzare, neppure con i virus che ti abbiamo fornito. Se resterai laggiù per un certo periodo di tempo, ciò provocherà in te parecchie carenze. Ma non pensiamo che resterai avvelenata."
Sollevai la ciotola e bevvi.
Il liquido era acido oltre che pungente. Piuttosto saporito. Avevo consumato cose di gran lunga peggiori nel New Jersey.
Dissi: — Grazie — e porsi la ciotola al mio ospite.
Lui, o lei, mosse la mano in modo rapido e deciso, un gesto che significava qualcosa. Le altre persone dissero "ya" e "uh". Mi sembrò che fossero più rilassate di prima.
In ogni caso, stesero altre pellicce. Altre persone si sedettero finché mi trovai circondata. L’aria era satura del loro odore di polvere e pelliccia.
Fu portato del cibo. Non ero sicura di che genere di roba si trattasse. Mangiai adagio e con circospezione e il meno possibile. Ma mangiai. Nella maggior parte delle società di cui ero a conoscenza, rifiutare il cibo era un gesto offensivo. Un antropologo doveva avere la digestione di una capra.
Le persone attorno a me incominciarono a conversare sommessamente. Spesso mi lanciavano occhiate. Solo il mio ospite restava in silenzio e continuava a porgermi nuovi piatti, osservandomi per assicurarsi che mangiassi.
Un piatto era costituito da pesce, ne ero quasi certa. Un altro mi ricordava dei pomodori verdi in salamoia. Un terzo aveva l’aspetto di kasha, ma non riuscivo a individuarne il gusto.
Le persone che mi stavano attorno ruttarono ed emisero dei suoni simili al tubare. Una serie di "uh" e "ya". Feci altrettanto.
Il pasto continuò. Cominciai a sentirmi stordita. Qualcosa che avevo ingerito stava facendomi un effetto narcotico. Le persone tutt’attorno si fecero più rumorose. Parecchi tesero le mani per toccarmi i vestiti, le mani o la faccia.
Qualcuno tirò fuori uno strumento simile a un flauto. Qualcun altro incominciò a battere fra loro due bastoncini cavi. Un battito e un sibilo, un battito e un sibilo, così faceva la musica. Mi appoggiai all’indietro su un gomito e rimasi a osservare il suonatore di flauto. Lui, o lei, indossava una tunica gialla e un paio di alti braccialetti di rame che mandavano bagliori con l’ondeggiare del suonatore, tenendo il tempo con la musica. Non avevo difficoltà a sentirne il ritmo; era quasi sempre regolare: un cuore con una leggera aritmia.
La musica cessò. Il mio ospite si alzò in piedi e io mi guardai attorno.