C’era un nuovo individuo nella stanza, appena dentro l’uscio aperto. Al pari del mio ospite, anche questo portava una veste lunga. Un segno di importanza? O di età? Sesso o occupazione? Portava un cappello, il primo che mi capitasse di vedere: alto e appuntito, e ornato di conchiglie.

Mi alzai in piedi, ondeggiando un poco. Mi ci volle un momento per mettere a fuoco le immagini.

Il nuovo arrivato aveva un’aria torva. Vidi una fonte di problemi nel portamento rigido ed eretto, nelle spalle tenute alte e arretrate, negli occhi strizzati, quasi chiusi, che mi fissavano in modo diretto. L’uomo, o la donna, portava un bastone in cima al quale erano appese delle penne che ondeggiavano, ma non per il vento. L’individuo tremava. Non riuscivo a capire se il movimento fosse intenzionale.

La persona disse qualcosa. Il suono delle sue parole era incollerito.

Il mio ospite rispose seccamente.

Le persone attorno a me incominciarono ad alzarsi e a indietreggiare. Era una qualche specie di conflitto di poteri ed ebbi la sensazione di trovarmici al centro.

L’individuo con il bastone disse ancora qualcosa. Il mio ospite serrò la mano a pugno e l’agitò, poi indicò la porta. Questo era abbastanza chiaro. "Tu, tal dei tali, vattene!"

L’individuo con il bastone lanciò un’occhiata astiosa e se ne andò. Gli altri lo seguirono alla spicciolata finché rimasero solo in tre: il mio ospite, il suonatore di flauto e una persona dal pelame bruno rossiccio che luccicava come rame alla luce del fuoco.

— Uh! — disse il mio ospite.

Gli altri fecero dei gesti che probabilmente significavano la loro approvazione.

Mi sentivo stanca e stordita. Avevo preso troppo di qualcosa, con molta probabilità del liquido. Dovevo andare cauta nel berlo in futuro. Mi strofinai il viso.

Il mio ospite mi guardò, poi gesticolò. Raccolsi il mio zaino. Lui, o lei, mi condusse fino a un’estremità della stanza, dove c’era un mucchio di pellicce. Il mio ospite gesticolò di nuovo. Mi coricai.

— È stata una bella festa. Buonanotte.

Il mio ospite se ne andò. Io sistemai il mio zaino in modo che si trovasse fra me e la parete e mi misi a dormire.

Mi destai con un mal di testa e una sensazione di disorientamento, mi drizzai a sedere e mi guardai attorno, e scoprii che mi trovavo in un vasto spazio interno. La luce penetrava da un’apertura sopra di me e da una porta aperta. Era gialla, il colore della luce del sole a pomeriggio inoltrato. Ma ero quasi certa che fosse mattina.

Una voce parlò poco lontano. Guardai in direzione del suono. Era la persona anziana, il mio ospite. Indossava una lunga veste color arancione scuro e un’alta cintura fatta di rame. In una mano teneva un bastone di legno decorato con pezzetti di conchiglia. L’altra mano era tesa verso di me, con il palmo all’insù. Giudicai che si trattasse di un saluto. A quel punto mi ero ormai ricordata dove mi trovavo in quel momento.

L’anziano individuo venne più vicino e si sedette. Parlò di nuovo, in tono sommesso e cortese.

Io mi misi una mano sul petto e dissi il mio nome. — Lixia.

Dopo un momento, il mio ospite disse: — Li-sa — e puntò il dito verso di me.

— Lixia — ripetei.

Il mio ospite si portò la mano ossuta al petto. — Nahusai.

Lo additai a mia volta. — Nahusai.

La risposta fu un gesto, un rapido movimento della mano. Il mio intuito mi disse che significava "sì".

Bene, allora. Conoscevo una parola. Si riferiva al mio ospite, ma che cosa significava? Era un nome, un titolo o un termine generico come "essere umano"?

Col tempo l’avrei capito.

Entrò una persona: il suonatore di flauto. Indossava la stessa tunica della sera precedente e gli stessi braccialetti di rame.

— Yohai — disse il mio ospite e puntò il dito.

Il suonatore di flauto ci guardò.

Era un nome. Ne ero quasi certa.

Yohai preparò la colazione: una poltiglia di un bruno grigiastro. Aveva un gusto aspro. Ne appresi il nome: atsua. Finito di mangiare, Yohai andò verso l’uscio e fece un gesto. Io presi il mio zaino, seguendolo attorno alla casa. C’era uno spiazzo aperto sul retro, dove cresceva della vegetazione. Era in gran parte azzurrognola con fiori bianchi o gialli.

Che fosse un giardino? Pensai di no. Le piante crescevano in modo disordinato e avevano un aspetto selvatico. Era uno spiazzo invaso dalle erbacce.

Al centro di quel terreno aperto sorgeva una costruzione delle dimensioni più o meno di uno sgabuzzino. Non appena vi arrivai vicino, mi resi conto di che cosa fosse. Una latrina. Puzzava tremendamente. Ci pensai su per un po’, quindi me ne servii. Dopo chiesi come lo chiamassero.

— Hana - rispose Yohai. O forse hna. Non ero sicura di aver sentito una vocale nella prima sillaba.

Yohai gesticolò di nuovo e io lo seguii. Attraversammo il villaggio. Le strade erano piene di bambini. Incontrammo solo alcuni adulti. I bambini smettevano di giocare e mi fissavano. Gli adulti facevano finta che non ci fossi. Avevo la sensazione che Yohai fosse a disagio e mi sentivo un po’ a disagio anch’io. Ma la giornata era bella, mite e radiosa. Soffiava un leggero vento incostante che portava il profumo della foresta e quello molto debole dell’oceano. Non era una giornata in cui stare in ansia, e non lo feci.

Arrivammo alla fine del villaggio. Lì c’erano degli orti: appezzamenti rettangolari lunghi e stretti che si estendevano fra le case e la foresta. Ciascuno di questi era recintato da uno steccato di legno, abbastanza basso da poter vedere al di sopra. All’interno degli steccati c’erano persone che lavoravano, una o due in ogni orto. Si muovevano fra file di piante. Alcune strappavano le erbacce. Altre raccoglievano. Altre ancora versavano acqua da recipienti che somigliavano ad anfore.

Ecco la risposta a uno dei miei interrogativi. Quella società era agricola, almeno in una certa misura.

Entrammo in un orto. A un’estremità c’era un albero. Yohai mi condusse alla sua ombra e indicò il terreno. Mi sedetti.

Il mio compagno, o compagna che fosse, incominciò a lavorare mentre io mi guardavo attorno. In lontananza, verso est, c’erano cumuli frastagliati nel cielo. Un temporale per quella sera. Nell’orto accanto c’era un bimbo, piccolo e peloso, seduto sotto una pianta. Mentre lo osservavo, sollevò la manina cercando di afferrare una delle foglie. Ma la foglia era troppo in alto.

A poca distanza, un adulto versava acqua. Svuotò il recipiente, poi si sedette, si rassettò e si girò. Sotto la sua tunica scorsi il rigonfiamento dei seni. Due seni. Era la prima persona che vedevo che non avesse il torace piatto. Era chiaramente una madre che allattava.

La donna mi guardò, poi fece un gesto: un fendente verticale. Ebbi la sensazione che fosse ostile, così distolsi lo sguardo.

A mezzogiorno Yohai mi raggiunse. Sedemmo insieme e mangiammo del pane. Il pane era piatto e dal gusto aspro. Più tardi Yohai mi insegnò alcune parole: pane, cielo, albero.

Tornammo verso casa. Il mio ospite era lì. Yohai se ne andò. Mi sedetti e imparai altre parole. Nel tardo pomeriggio sentii il brontolio del tuono. Incominciò a piovere; dapprima una pioggerellina, poi un vero acquazzone. Io e il mio ospite cenammo. Era la stessa roba della colazione: atsua. Poltiglia grigia. Non mangiai molto.

Più tardi restammo seduti senza parlare. Il sole era tramontato. La pioggia luccicava, illuminata dalla luce del fuoco: una cortina argentea contro la porta. Mi appoggiai a un palo. Il mio ospite se ne stava chino accanto al fuoco, raggomitolato nella veste arancione. Ogni tanto muoveva una mano. Rigirava un braccialetto o picchiettava sul terreno. Era una persona con un problema grave, e avevo la sensazione che fossi io il problema. Yohai mi aveva dato l’impressione di un’audacia nervosa, di qualcuno che ritenesse doveroso fare una cosa che non desiderava fare. "Vedete che cosa abbiamo qui. Vedete il nostro ospite. Vedete la persona di cui non ci vergognamo." Quello era stato il messaggio che intendeva trasmettere quando mi aveva condotta nell’orto. Che cosa stava succedendo esattamente? Decisi di non fare congetture. Le informazioni che avevo erano troppo scarse e non potevo essere sicura di comprendere qualcosa di quel popolo.


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