Il giorno seguente ci fu ancora pioggia. Io e il mio ospite lavorammo sulla terminologia: oggetti casalinghi per lo più, e alcuni verbi di uso comune. Nel pomeriggio Yohai tirò giù un piccolo telaio che stava appeso alla parete e incominciò a tessere una striscia di stoffa. Il filato era bianco e blu. Io osservavo. Yohai lavorava rapidamente. Ben presso iniziai a distinguere un disegno; era geometrico, pieno di angoli acuti. Secondo me, aveva qualcosa di ostile ed era di gran lunga troppo intricato. Che significato poteva avere? Quella cultura era forse bizantina? O ero io a soffrire di paranoia?

Mi alzai e mi misi a fare degli esercizi di yoga. Il mio ospite mi guardò, sgranando gli occhi.

Mi interruppi. — Non è niente di dannoso o maligno — dissi in tono cordiale. — Lo faccio per impedire che mi faccia male la schiena e per mantenere la mente abbastanza serena.

Continuai i miei esercizi. Il mio ospite stava a guardare. La pioggia diminuì. Ormai non era che una pioggerellina.

— Scusatemi. — Presi il mio zaino e andai alla latrina. Puzzava come sempre. Entrai e mi sedetti, poi tirai fuori la mia radio e chiamai la nave.

— Sì? — fece la radio. La voce era profonda e un po’ arrochita. Stavo parlando con il dottor Edward Antoine Turbine di Vento, autore di opere quali La società indigena americana nella riserva e Modelli di sopravvivenza nel tardo Ventesimo Secolo, già eminente professore presso l’Università di Duluth — si era dimesso dalla carica quando aveva lasciato la Terra — e da parecchi anni mio collega presso il Dipartimento di Studi Interculturali.

— Sono Lixia — gli dissi. — Chiamo da un gabinetto esterno, così sarò sbrigativa.

Eddie rise.

— Mi serviva un posto riservato.

— Okay — disse Eddie.

Appoggiai la radio sulle ginocchia, poi tolsi il medaglione dalla catena e lo infilai in una fessura nella radio.

Il piccolo computer posto nel medaglione comunicò con il computer appena poco più grande posto nella radio, e questo a sua volta comunicò con un computer a bordo della nave. Ci volle soltanto un minuto. La radio emise un bip e io tirai fuori il medaglione. Tutto quello che il medaglione aveva registrato, tutto quello cioè che mi era successo negli ultimi due giorni, adesso si trovava nel sistema informativo sulla nave.

Directory: Prima spedizione interstellare

Subdirectory: Sigma Draconis II

Sub-subdirectory: Rapporti da luogo operazioni — Scienze sociali

Nome file: Li Lixia

La radio chiese: — C’è dell’altro?

— No.

— Okay. Altri tre si sono messi in contatto. Nessun problema finora. Ma sii prudente e chiama il più presto possibile. Dovrei avere qualche informazione effettiva fra un paio di giorni.

Spensi la radio, la rimisi nello zaino e uscii. Aveva ripreso a piovere forte e dovetti correre fino alla casa.

L’indomani il tempo era sereno. Io e Yohai ci recammo nell’orto. Il terreno era ancora bagnato. Gocce d’acqua luccicavano sulle foglie. Yohai mi insegnò a strappare le erbacce. Lavorammo per tutta la mattinata. A mezzogiorno ci riposammo sotto l’albero. Negli altri orti, le persone si muovevano qua e là, parlando fra di loro, ma nessuno venne a farci visita. Interessante. Avevo di nuovo la sensazione che venisse compiuto un atto doveroso e che Yohai non desiderasse compierlo. Addentai un ortaggio giallo; era succoso e dal gusto dolceamaro.

Alla sera sedetti insieme a Nahusai. Yohai andò fuori, ma non seppi dove. Imparai altri verbi e parecchie preposizioni: il tormento di ogni lingua, ma tenevano insieme e rendevano coerenti tutte le informazioni. A. Da. In. Di. Fra.

Il giorno seguente era il quinto che trascorrevo su quel pianeta. Il cielo era di nuovo limpido. Lavorai con Yohai nell’orto e imparai i nomi di diverse piante. Yohai mi spiegò che era una donna; non una madre, però. E mentre me lo diceva, sembrava infelice.

— Nahusai? — chiesi.

Lei fece il gesto che significava "sì". — Madre — disse, poi si mise la mano sul petto. — Madre me.

Ah, bene. Un rapporto di parentela. Il primo che mi capitava. Incominciai a pensare che stavo arrivando a qualcosa.

L’indomani Yohai mi portò al fiume, che scorreva fra gli orti e la foresta. In quel periodo dell’anno, la piena estate, l’acqua era bassa e scorreva attorno a pietre gialle. Yohai entrò e rivoltò un sasso, poi afferrò qualcosa. — Tsa!

Mi porse quella cosa. Era lunga forse dieci centimetri, verde e dura, con otto zampe. La tenni con circospezione. Le zampe si muovevano. A una estremità c’erano due lunghi peduncoli. Erano occhi? Oppure antenne? Guizzavano avanti e indietro.

— Noi mangiamo — disse Yohai.

— Oh, davvero? — Feci il gesto che significava incertezza o confusione.

— Tu vedi. — Yohai afferrò la creatura e la gettò in una pentola. — Tu qui. — Mi fece cenno di raggiungerla.

Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i pantaloni ed entrai nell’acqua. Lei aveva preso un’altra creatura e anche questa finì nella pentola. — Tu.

Infilai le mani nell’acqua e rigirai un sasso. Qualcosa mi scivolò fra le dita. Cercai di afferrarlo, ma me lo lasciai sfuggire.

— Dannazione. — Trovai un altro sasso e provai di nuovo.

Passammo tutta la mattina nel fiume. Yohai prese una ventina di quegli animali, io solo due.

Alla fine lei uscì dal fiume e restò a fissarmi con aria perplessa.

— In che cosa sono brava? — dissi in inglese. — Domanda interessante. Sono molto brava a imparare le lingue e abbastanza brava a capire come pensano gli altri. Anche se non sempre riesco a spiegarmi come faccio a sapere quello che so. È di qualche utilità?

Yohai raccolse la pentola. Quelle cose verdi erano ancora vive. Strisciavano l’una sull’altra, cercando di uscire.

— Vieni. — Mi fece cenno di seguirla.

Raccattai i miei stivali. Procedemmo per un po’ seguendo la corrente del fiume. Dopo alcuni minuti gli orti erano spariti e tutt’attorno a noi c’erano alberi. L’aria odorava di chissà cosa: la fragranza della foresta, penetrante e caratteristica, per la quale non avevo un nome.

C’erano rapide nel fiume. Niente di eccezionale. L’acqua scrosciava superando una serie di piccoli salti. Qua e là vidi un po’ di schiuma. In fondo all’ultima cascatella c’era un laghetto. Qui l’acqua era calma, verde e profonda.

La mia compagna mise giù la pentola che aveva in mano. Si tolse con un calcio i sandali e si sfilò la tunica dalla testa. Il suo corpo era grazioso, scuro e lucente. Mi ricordava le lontre e gli orsi e anche la mia stessa specie. Era sorprendentemente umanoide. La sola differenza notevole era la pelliccia. Certo, anche gli occhi erano un po’ insoliti. Le pupille erano fessure verticali. L’iride, che era di un giallo chiaro, riempiva l’occhio e non riuscivo a vedere assolutamente il bianco. Le mani avevano tre dita e un pollice. I piedi avevano quattro dita. Se si escludeva questo e il torace piatto, somigliava al nostro primo pilota, Ivanova.

Lei puntò il dito verso di me. — Tu. Li-sha.

Mi svestii.

— Tsa! - Mi toccò la spalla nuda. — Cosa?

Rimasi immobile. Lei mi girò intorno e si fermò alle mie spalle. — Uh! — Sentii il tocco della sua mano, molto leggero, su una scapola. Rabbrividii. Poi venne a fermarsi di fronte a me e fissò il mio torace. Per una donna umana, ero abbastanza piatta. Tuttavia, i miei seni erano di gran lunga più evidenti dei suoi.

— Madre? Tu? — domandò.

— No.

Mi guardò dritto negli occhi, aggrottando la fronte. — Tu cosa?

Le risposi in inglese. — Non riesco a spiegarlo, Yohai. Non ancora. Non so come voi dite "mondo", o "stella", o "amico". Ma non c’è niente di sbagliato in me. Non sono pericolosa. Non ho cattive intenzioni.

Yohai mi fissò ancora per un minuto, poi si voltò e si tuffò nel laghetto. Era un’eccellente nuotatrice. La vidi scivolare nell’acqua verde con l’eleganza di una foca.


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: