Nahusai prese la scatola.
— Addio — dissi in inglese, poi seguii Yohai fuori dalla porta.
Il sole stava appena facendo la sua comparsa. Guardando verso est, lo vidi: una striscia di luce arancione sopra i tetti. Il cielo era sereno. La strada deserta, fatta eccezione per un ki giallo: un volatile domestico, qualcosa di simile a una gru. Era a caccia di insetti fra le erbacce lungo la parete di una casa. Lo spaventammo. Il volatile si allontanò impettito e noi ci affrettammo nella direzione opposta.
Quando il sole si fu levato del tutto, noi ci trovavamo già nella foresta. I tronchi s’innalzavano da tutti i lati come pilastri in una cattedrale dei tempi antichi. Molto più sopra di noi c’erano i rami e le loro foglie scure nascondevano il sole. Ogni tanto arrivavamo in una radura, illuminata dal sole e piena di insetti volanti. Doveva esserci una nidiata, oppure stavo assistendo a una migrazione? In ogni caso, gli insetti erano tutti della stessa specie. Il corpo era di un blu elettrico, le ali trasparenti e incolori, fatta eccezione per due grosse chiazze rosse.
In una radura gli insetti erano particolarmente numerosi. Si libravano tutt’attorno a noi. Uno mi si posò sul braccio. Mi fermai, affascinata. L’insetto agitò le ali. Contai otto zampe e due antenne.
— Vieni — mi sollecitò Yohai.
Mi affrettai a seguirla. L’insetto volò via.
A mezzogiorno giungemmo nei pressi di una costruzione che sorgeva in una radura più vasta del consueto. Tutt’attorno crescevano erbacce e sul retro scorreva un torrente. Udivo il rumore dell’acqua corrente.
— È questo il posto — mi disse la mia compagna.
La costruzione era piccola e vecchia. Un tronco sosteneva una parete e il tetto era di cuoio. Ero abbastanza certa che non fosse il tetto originario, ma piuttosto una riparazione di fortuna, fatta da qualcuno che non era un carpentiere. Su un lato, a poca distanza, c’era una seconda costruzione, una specie di capanno dal quale proveniva del fumo. Che cosa poteva essere? Ebbi la risposta un momento dopo: il suono di un martello. Una fucina.
La mia compagna si diresse verso il punto da cui proveniva il suono e io la seguii. Ci fermammo davanti all’entrata del capanno e guardammo dentro. Un fuoco ardeva in una fucina di pietra e c’era una persona china sopra un’incudine di ferro. C’era del metallo sull’incudine, di un intenso giallo incandescente. La persona sollevava un martello, poi lo abbatteva, lo sollevava e lo abbatteva di nuovo.
Yohai alzò una mano in un cenno di ammonimento. "Aspetta" significava quel gesto. E io aspettai.
Dòpo un po’ la persona mise giù il martello, si raddrizzò, si stiracchiò, emise un mormorio e infine si girò e ci vide. — Uh!
Yohai disse qualcosa che non compresi.
Il fabbro, uomo o donna che fosse, fece un gesto.
Yohai disse ancora qualcosa. Intanto io osservavo con attenzione il fabbro. Indossava sandali e un grembiule di cuoio; nient’altro. Lo guardai bene: ampie spalle, un grande torace, braccia possenti. Era una creatura imponente. Il pelame che la ricopriva era di un bruno rossiccio, un colore insolito. Non c’era stato qualcuno di simile alla festa la sera in cui ero arrivata?
Yohai smise di parlare.
Il fabbro fece un altro gesto, poi mi guardò. — Io sono Nia. Resterai qui.
Feci il gesto dell’assenso.
Yohai disse qualcosa rivolta a me. Era un addio? Si voltò e si allontanò, camminando in fretta. Nel giro di uno o due minuti era sparita.
— Siediti — mi disse Nia. — Io… — Fece un cenno in direzione del fuoco.
— Capisco.
Mi sistemai in un angolo. Nia aggiunse altra carbonella al fuoco, poi cominciò ad azionare il mantice: una grossa sacca fatta di cuoio con attaccato un bastone. Nia alzava e abbassava il bastone. La sacca si riempiva e si svuotava. Il fuoco si ravvivò. Dopo qualche istante, Nia raccolse le tenaglie e depose il metallo nel fuoco.
— Che cos’è quello? — domandai, indicandolo col dito.
Nia mi disse la parola che significava ferro, poi riprese a lavorare. Batté il pezzo di ferro finché non fu piatto, poi lo riscaldò e lo ripiegò, quindi ricominciò a batterlo fino ad appiattirlo. L’operazione si ripeté più e più volte. Mi stancai di osservare.
A un certo punto del pomeriggio Nia smise di lavorare. Tirò un sospiro e si stiracchiò. — Cibo.
— Sì. — Mi alzai in piedi.
Andammo nell’altra costruzione. L’interno era vuoto, a parte un mucchio di pellicce e un paio di recipienti. Nia si tolse il grembiule, poi rovistò fra le pellicce e trovò una tunica. Se la mise.
— Ecco. — Tirò fuori del pane da un recipiente. L’altro era pieno di un liquido: il narcotico dal gusto acre che avevo bevuto alla festa.
Ci sedemmo sulla soglia e mangiammo e bevemmo.
— Da dove vieni? — s’informò Nia. Aveva la bocca piena di cibo e non riuscii a capirla, così lei dovette ripetere la domanda.
— Non sono di queste parti — risposi.
— Io appartengo al Popolo del Ferro — fece lei. — Si trova molto lontano. Laggiù. — Puntò il dito in direzione del sole. — Tu?
Feci un cenno nella direzione opposta, verso oriente.
— Già. — Bevve altro liquido. — Questa gente è difficile da capire. — Si alzò e tornò nella fucina.
Io rimasi dov’ero finché non sentii il rumore del martello di Nia. Poi tirai fuori la radio e chiamai Eddie.
Quando ebbe ascoltato ciò era accaduto, lui disse: — Dovrei tirarti fuori di lì.
— No.
— Perché no?
— Non credo di correre alcun pericolo, e se così fosse… Eddie, sapevamo tutti quanto potesse essere pericoloso. Avremmo potuto mandar giù dei robot. Abbiamo mandato delle persone perché volevamo quello che solo le persone possono apportare a una situazione. La prospettiva umana. Abbiamo deciso con una votazione di correre il rischio e c’è stata una netta maggioranza a favore.
Eddie restò in silenzio.
— Io voglio restare. È la mia prospettiva umana. È la ragione per cui ho lasciato la Terra, non per starmene seduta in una sala in una dannata nave. Finalmente sono in grado di portare avanti una conversazione, e comincio a imparare come gli indigeni lavorano il ferro. Lo sai che mi interessa la tecnologia.
Ci fu ancora silenzio, poi un sospiro. — Mi sono opposto all’impiego di robot perché ero convinto che sarebbero stati più dirompenti delle persone. D’accordo. Rimani. Ma credo che tu abbia torto.
— Riguardo a che cosa? La situazione?
— No. La tecnologia. È un tipico preconcetto occidentale. Tu credi che un utensile sia più importante di un sogno perché un utensile può essere misurato e un sogno no.
Feci un suono evasivo.
— La colpa è dei greci — disse Eddie.
— Che cosa?
— Sono stati loro a sentenziare che la realtà era matematica. Un’idea folle! Un valore etico non è come un triangolo. Un concetto religioso non si può ridurre a una formula. E tuttavia sono entrambi reali. Sono entrambi importanti.
— Non avrai modo di litigare con me. Non ne so abbastanza della filosofia occidentale per difenderla. E devo chiudere la trasmissione.
— Chiamami domani.
— D’accordo.
Nia tornò al crepuscolo. Divise in due il suo mucchio di pellicce. — Tu dormi lì. — Indicò uno dei mucchi.
Mi svegliai al levar di sole. Nia era già in piedi e si stava mettendo il grembiule. — Yohai dice che puoi imparare. Vieni.
Andammo nella fucina. Nia accese il fuoco, poi mi insegnò ad azionare il mantice. Quella mattina fece la lama per una zappa. Era appuntita e aveva due barbigli sulla parte posteriore: per sarchiare, decisi, anche se dava l’impressione di poter essere usata come arma.
Non avevo visto nessuna autentica arma. Nessuna spada. Nessuna picca. Non una scure né una mazza da combattimento. Niente che fosse palesemente concepito per fare del male a un’altra persona.
Era una cosa interessante. Forse gli uomini, ovunque si trovassero, avevano gli strumenti per uccidere.