A mezzogiorno ci interrompemmo per mangiare. Domandai a Nia il nome di parecchi oggetti: la lama della zappa, il martello, e così via. Lei aggrottava la fronte e me lo diceva. Avevo la sensazione che non sarebbe stata un’insegnante molto brava. Sembrava laconica per natura.

Tornammo al lavoro. Presto cominciarono a dolermi le braccia, poi la schiena e infine le gambe. Il fumo mi irritava gli occhi e non ero troppo entusiasta delle nuvole di vapore prodotte quando Nia immergeva la lama incandescente in un secchio d’acqua. Lo fece due volte. Alla fine portò fuori la lama. La esaminò alla luce del sole, poi fece il gesto che significava "sì".

— Va bene? — domandai.

— Sì. Ne farò un’altra.

Maledizione a lei. La fece. Quando ebbe finito, io ero ormai esausta. Andai fuori e mi sdraiai per terra mentre lei riduceva il fuoco e metteva via gli utensili. Era ordinata fin quasi alla pignoleria nel lavoro. La casa, al contrario, era in un totale disordine. Per la prima volta notai che la giornata era fresca e luminosa. Una bella giornata, quasi finita ormai. Decisi di non chiamare Eddie. Era uno sforzo troppo grande. Invece me ne andai a letto.

Il giorno seguente Nia fabbricò del filo metallico. Io lavorai al mantice e imparai una nuova frase: "Aziona in modo costante, idiota!".

Quella sera restammo sedute nella casa di Nia a bere il liquido acre. Alla fine eravamo entrambe un po’ ubriache. Nia incominciò a cantilenare fra sé e sé, battendo una mano sulla coscia per tenere il tempo. Aveva gli occhi socchiusi e un’aria trasognata.

Io ero appoggiata alla parete e osservavo il fumo che saliva dal fuoco. Era un cambiamento in meglio, decisi. Nia era taciturna e irascibile, ma non era malinconica. Nahusai era solita passare parecchio tempo seduta a rimuginare e Yohai era quasi sempre indaffarata. L’avevo trovato irritante.

Nia smise di cantilenare. La guardai. Adesso era coricata e un minuto dopo incominciò a russare. Una compagna distensiva, mi dissi.

Durante i dieci giorni che seguirono non accadde niente di rilevante. Aiutavo Nia nella fucina e la sera parlavo con Eddie.

— Non ci sono dubbi sulla tua lingua — mi disse una sera. — È una lingua franca, il che spiega perché è così facile da imparare. Anche il continente grande ha un linguaggio commerciale, uno diverso, che non è assolutamente collegato con il tuo. Yvonne e Santha lo stanno imparando. Meiling impara qualcos’altro, un linguaggio locale, terrificante nella sua complessità.

— E Gregory? — m’informai.

— Un altro linguaggio locale, ma meno difficile. Oh, a proposito, a Gregory è successa una cosa interessante…

Attesi con impazienza. Avevo imparato che Eddie tendeva a serbare le informazioni veramente importanti per la fine di una conversazione.

— Gli individui fra cui si trova hanno scoperto che è un maschio. Gli hanno detto di andarsene. Lui ha chiesto il perché. Pare che la domanda li abbia lasciati interdetti. Non riuscivano a credere che l’avesse fatta. Alla fine, però, glielo hanno spiegato. Nella loro società gli uomini vivono per proprio conto, su fra le alte montagne. Badano alle greggi e non si recano mai nelle case dove abitano le donne. L’idea stessa è ignobile. Gregory dice di non essere riuscito a pensare a un modo garbato per informarsi sulla procreazione.

— L’hanno cacciato via?

— No. Ha detto loro che non sapeva come restare vivo da solo fra le montagne. Hanno discusso a lungo, poi hanno deciso di lasciarlo restare in una delle costruzioni esterne, una specie di granaio. Ed è rimasto lì. J’y suis, j’y reste, dice.

— Gli uomini vivono totalmente da soli?

— Secondo Gregory, sì. Le donne sostengono che gli uomini hanno un brutto carattere. Non amano la compagnia.

— Ah, sì? Questo spiega ciò che è successo a Harrison.

— Uhu. Ho avvertito Derek e Santha. Yvonne parlerà con la sua ospite; è l’informatrice ideale, una cronachista tribale che non smette mai di parlare.

Feci il gesto dell’intesa, poi sorrisi e dissi: — Sì.

— Tu parlane con Nia. Chiedile informazioni sugli uomini della sua società.

Promisi che l’avrei fatto, ma non lo feci. Non era mai facile parlare con Nia. Spesso si interrompeva nel bel mezzo di una frase e restava a fissare il vuoto oppure cambiava argomento. Avevo l’impressione che vivesse da sola da troppo tempo. Aveva dimenticato come si teneva una conversazione. Mi concentrai sul compito di carpirle informazioni sulla grammatica. Le domande sulle tradizioni popolari potevano aspettare ancora un po’.

Una mattina Nia rovistò fra le travi della sua casa e tirò giù due asce.

— Vieni — mi disse. — Andiamo a far legna.

Trascorremmo tutta la mattina nella foresta. Nia abbatté un albero che era alto forse dieci metri. Il tronco era diritto, i rami spogli, a parte alcune foglie appassite. L’albero era evidentemente morto, e da un po’ di tempo.

Quando l’albero fu a terra, Nia disse: — Fallo a pezzi.

— Farò del mio meglio.

Cominciai a spaccarlo. Nia si allontanò. Quando mi interruppi per fregarmi le mani, sentii la sua ascia a breve distanza. Stava abbattendo un altro albero.

A mezzogiorno ci prendemmo un po’ di riposo.

— A che cosa serve? — le domandai

— Carbonella. — Masticò un pezzo di pane. — Questo legno è già secco. Domani lo mettiamo sotto terra. Brucerà per nove, dieci giorni, adagio, sotto terra. Allora diventerà carbonella.

Si alzò, si stiracchiò e fregò le palme delle mani sulle cosce. — È ora di tornare a lavorare.

Emisi un gemito e presi la mia ascia.

Dopo qualche minuto la vescica che avevo sulla mano destra si ruppe. Misi giù l’ascia e mi guardai la vescica. C’era del sangue. Avrei dovuto medicarla. Tornai verso la casa di Nia e aprii il mio zaino. Era meglio lavare la ferita? Decisi di non farlo. Appariva pulita e non sapevo che genere di microbi vivessero nei corsi d’acqua, soprattutto quelli in prossimità di un villaggio. In teoria, niente su quel pianeta poteva nutrirsi di me. La nostra materia genetica era troppo diversa e nessun virusoide locale avrebbe potuto usare il mio Dna per riprodursi. Nessun batterioide locale avrebbe potuto usare le mie cellule per alimentarsi. Tuttavia…

Tirai fuori il barattolo del bendaggio e mi spruzzai una piccola e sottile fasciatura. Bruciava. Sarebbe servita da disinfettante. Mi sedetti e aspettai che la fasciatura si asciugasse. Era lucida e color bruno scuro: color carne, stando all’etichetta sul barattolo, e prodotto nella Confederazione Sudafricana.

— Nia! — gridò una voce.

Alzai lo sguardo. Yohai usciva dalla foresta, camminando in fretta.

— Dov’è Nia?

— Laggiù. — Glielo indicai col dito. — Puoi sentire il rumore dell’ascia.

— Cattive notizie! Devo informarla. — Corse via.

Pensai di seguirla, ma poi decisi di no, misi via il barattolo del bendaggio e feci un po’ di lavori di casa. Quel disordine incominciava a farmi impazzire. Appesi gli indumenti di Nia e sistemai le pellicce su cui dormivamo in due mucchi ordinati. Quando ebbi finito, uscii. Non riuscivo a sentire i colpi dell’accetta né alcun altro suono all’infuori dello stormire delle foglie. Il sole splendeva nel cielo, quasi radioso come il nostro Sole, e l’aria era torrida. Mi sedetti all’ombra di una parete e attesi. Dopo mezz’ora, arrivarono Nia e Yohai.

— È ora che ti dica che cosa sta succedendo — fece Nia.

— Mi farebbe piacere.

Si accosciarono entrambe. Nia depose per terra le sue due accette, poi si grattò il naso. — Nahusai si trova a letto. Non riesce ad alzarsi. Non riesce a mangiare. Hakht dice che sei stata tu a far questo. Hakht dice che devi essere cacciata. Altrimenti Nahusai morirà e altra gente dopo di lei. Tu fai delle canzoni. Le canzoni fanno del male. Rubano il respiro dalla bocca. Fanno diventare duro come pietra il sangue dentro la pancia. — Nia rivolse un’occhiata a Yohai. — È questo che hai detto.


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