Le udienze private si sono concluse parecchie ore fa e si è diffusa la voce che il Dalai Lama è andato a letto prima di mezzanotte, ma noi continuiamo la festa. Lhomo Dondrub, il nostro amico aviatore, ride e versa champagne e birra di riso per tutti; Labsang Samten, il fratellino del Dalai Lama, a un certo punto salta i bracieri pieni di tizzoni ardenti; il serio Tromo Trochi di Dhomu all’improvviso si muta in un mago e in un angolo esegue giochi con fuoco e cerchi e levitazioni; poi la Dorje Phamo canta un chiaro e lento a solo da cappella, con voce così dolce che ancora oggi mi tormenta i sogni; infine decine di ospiti attaccano in coro il canto dell’Oracolo, mentre l’orchestra si prepara a chiudere i festeggiamenti, prima che l’alba cominci a rischiarare il cielo.

All’improvviso la musica tace a metà battuta. I ballerini si fermano. Aenea e io ci blocchiamo, ci guardiamo intorno.

Per ore non c’è stato segno degli ospiti della Pax, ma a un tratto uno di loro — Rhadamanth Nemes — emerge dall’ombra dei tendaggi dell’alcova del Dalai Lama. Si è cambiata d’uniforme e ora veste tutta in rosso. Con lei ci sono altre due persone e per un attimo penso che siano i preti, ma poi vedo che le due figure vestite di nero sono copie quasi identiche di Nemes: una donna e un uomo, in tuta da combattimento nera, con flosce ciocche nere sulla fronte pallida, con occhi d’ambra morta.

Il terzetto si muove fra i ballerini impietriti e viene verso di noi. Istintivamente mi metto fra Aenea e quelle creature, ma il Nemes maschio e l’altra sua simile si spostano per prenderci sui fianchi. Tiro Aenea dietro di me, ma lei si oppone e mi si affianca.

I ballerini impietriti non fanno rumore. L’orchestra rimane muta. Perfino il chiaro di luna pare ridotto a raggi solidi nel pulviscolo dell’aria.

Tolgo di tasca la torcia laser e la tengo lungo il fianco. La Nemes principale mostra i piccoli denti. Il cardinale Mustafa esce dall’ombra e rimane dietro di lei. Le quattro creature della Pax hanno lo sguardo fisso su Aenea. Per un attimo penso che l’universo si sia fermato, che i ballerini siano davvero impietriti nel tempo e nello spazio, che le note della musica pendano su di noi come stalattiti di ghiaccio pronte a staccarsi e a cadere; ma poi sento il mormorio della folla, un brusio timoroso, un sibilo d’ansia.

Non c’è chiara minaccia — solo quattro ospiti della Pax che attraversano la pista da ballo, con Aenea al centro del loro cerchio sempre più stretto — ma l’impressione di predatori che stiano per avventarsi sulla vittima è troppo forte per essere ignorata, come è troppo forte il puzzo della paura tra i profumi, le ciprie, la colonia.

«Perché aspettare?» dice Rhadamanth Nemes, guardando Aenea, ma parlando ad altri, le sue copie forse, o il cardinale.

«Penso…» dice il cardinale Mustafa e impietrisce.

Tutti impietriscono. I grandi corni vicino all’arcata d’ingresso hanno suonato col basso rombo degli spostamenti degli zoccoli continentali. Nelle nicchie non c’è nessuno che possa averli suonati. I piccoli corni di ottone e d’osso fanno da cornice al continuo rombo dell’unica nota dei corni più grandi. Il grande gong vibra a livello di conduzione ossea.

C’è un fruscio e un grido interrotto a metà, dall’altra parte della pista da ballo, nella direzione delle scale mobili, dell’anticamera, delle tende dell’arcata d’ingresso. La folla si divide, lascia uno spazio sempre più ampio, si scosta come terriccio davanti alla lama dell’aratro.

Qualcosa si muove dietro i tendaggi dell’anticamera. Ora qualcosa attraversa i tendaggi, non li apre, li taglia. Qualcosa scintilla alla luce dell’Oracolo e scivola sul parquet, scivola come se fosse librata a qualche centimetro dal pavimento, brilla alla luce morente della luna. Brandelli di tendaggio rosso penzolano da una figura d’incredibile altezza, tre metri almeno, e troppe braccia emergono dalle pieghe di quella veste cremisi. Le mani sembrano reggere lame d’acciaio. I ballerini si spostano rapidamente e c’è un ansito generale, netto e percettibile. Un lampo silenzioso soppianta il chiaro di luna e trae riflessi stroboscopici dal lucido pavimento, eclissa l’Oracolo, lascia echi retinici. Il tuono giunge dopo alcuni secondi e non si distingue dal rombo basso, che scuote le ossa, dei corni che ancora echeggiano nella sala d’ingresso.

Lo Shrike si ferma a cinque passi da Aenea e da me, cinque passi dalla creatura Nemes, dieci passi dalle due copie di Nemes impietrite nell’atto di girarci intorno, otto passi dal cardinale. Mi viene in mente che lo Shrike, avvolto nei brandelli del tendaggio rosso, sembra niente di più di una caricatura cromata e munita di lame del cardinale Mustafa nella sua tonaca cremisi. I cloni di Nemes, nell’uniforme nera, sembrano ombre di stiletto contro le pareti.

Da qualche parte, in uno degli angoli in ombra della grande sala di ricevimento, un orologio a pendolo batte lentamente le ore: una, due, tre, quattro. È, ovviamente, il numero delle macchine per uccidere non umane ferme davanti a noi e dietro di noi. Sono passati più di quattro anni da quando ho visto lo Shrike, ma non trovo meno terribile né più gradita la sua presenza, anche se ora quel mostro ci fa comodo. I suoi occhi rossi brillano come laser sotto un sottile velo d’acqua. Le mascelle di acciaio al cromo, socchiuse, mostrano file su file di denti affilati come rasoi. Le lame, i barbi e i bordi taglienti della mostruosa creatura emergono in decine di punti dal tendaggio rosso che l’ammanta. Lo Shrike non batte ciglio. Non pare che respiri. Ha smesso di scivolare, ora è immobile come una statua d’incubo.

Rhadamanth Nemes gli sorride.

Sempre impugnando la misera torcia laser, ricordo il confronto dei due su Bosco Divino, anni fa. La creatura Nemes era diventata una confusa sagoma color argento ed era semplicemente scomparsa e ricomparsa senza preavviso accanto a Aenea, allora dodicenne. Aveva intenzione di tagliare la testa alla mia amica e di portarsela via in una sacca di iuta; e così avrebbe fatto, se in quel momento non fosse comparso lo Shrike. Nemes potrebbe farlo ora, senza che io possa reagire in tempo. Quelle creature si muovono fuori del tempo. Provo l’acuto dolore di un padre che guardi la figlia avanzare sulla traiettoria di una vettura lanciata a tutta velocità, incapace di muoversi abbastanza in fretta per salvarla. Sovrimpressa su questo terrore c’è la sofferenza di un amante impossibilitato a proteggere la persona amata. Morirei all’istante per salvare Aenea da quelle creature, Shrike compreso; in realtà potrei morire all’istante, in meno di un istante, ma la mia morte non la proteggerebbe. Digrigno i denti per la frustrazione.

Girando solo gli occhi, per paura di scatenare il massacro se solo muovessi la mano o la testa o un muscolo, vedo che lo Shrike non fissa Aenea né la Nemes primaria: fissa direttamente il cardinale John Domenico Mustafa. Quel prete dal viso di rospo sente di sicuro il peso di quello sguardo rosso sangue, perché è sbiancato in viso: il suo pallore risalta contro il cremisi della tonaca.

Ora Aenea si muove. Mi affianca a sinistra, infila la mano nella mia, mi stringe le dita. Non è la richiesta di rassicurazione di una bambina, è un segnale di rassicurazione per me.

«Lei sa già come andrà a finire» dice con calma Aenea al cardinale, senza badare alle creature Nemes che si raggomitolano come gatti pronti a balzare.

Il Grande Inquisìtore si umetta le labbra. «No, non lo so» replica. «Ci sono le tre…»

«Sa già come andrà a finire» lo interrompe Aenea, sempre con calma. «Lei era su Marte.»

"Marte?" penso. "Che diavolo c’entra Marte, con questi mostri?" Il lampo balena di nuovo dal lucernario, proietta ombre pazzesche. Le facce delle centinaia di ospiti impietriti di terrore sono come bianchi ovali dipinti su velluto nero tutt’intorno a noi. In un attimo di folgorante intuizione, che mi rischiara la mente come il lampo appena balenato, mi rendo conto che la biosfera metafisica di questo pianeta, evolutasi o no dallo zen, è crivellata di demoni e di spiriti malevoli ispirati ai miti tibetani: i cancerosi nyen, spiriti della terra; i sadag, signori del terreno, che tormentano i costruttori che disturbano il loro regno; gli tsen, spiriti rossi che vivono nelle rocce; i gyelpo, spiriti di sovrani defunti che hanno mancato ai voti, morti, micidiali, abbigliati in livide corazze; i dud, spiriti così malevoli da cibarsi solo di carne umana e da indossare la nera corazza degli scarafaggi; le mamo, divinità femminili spietate come invisibili correnti di risucchio; le matrika, streghe degli ossari e delle piattaforme di cremazione, annunciate da una folata del loro alito che puzza di carogna; i grahas, divinità planetarie che causano epilessia e altre violente malattie devastanti; i nodjin, guardiani delle ricchezze nella terra, morte per i cercatori di diamanti; e decine di altri esseri notturni, zannuti, muniti di artigli, assassini. Lhomo e gli altri mi hanno raccontato spesso e bene la storia di quegli esseri. Guardo le facce sbiancate che fissano, sconvolte, lo Shrike e le creature Nemes e mi dico: "Questa notte non sarà poi tanto inusuale per loro, quando lo racconteranno".


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