— Come preferisci. Io davvero non ti stavo cercando. Se vuoi, vai via.
Credermi a questo proposito gli riusciva molto più difficile che credere allo scambio di corpi. Il ragazzino si guardò intorno con aria sospettosa, aggrottando la fronte.
Di sicuro non gli era facile andarsene. Aveva percepito il mistero, aveva sentito le forze che stanno oltre il mondo degli umani. E aveva rifiutato queste forze, sia pure temporaneamente.
Ma potevo immaginare che volesse imparare almeno qualche piccola cosa, che so, qualche trucchetto con la pirocinesi e la telecinesi, l'ipnosi, la guarigione, la maledizione. Non so esattamente da cosa, ma probabilmente era attratto da questi giochetti. Non solo dal conoscerli, ma dal saperli usare.
— Davvero non mi stava cercando? — mi chiese alla fine.
— Non ti stavo cercando. Non ne abbiamo il diritto, per davvero.
— E come faccio a esserne sicuro? Magari anche questa è una bugia — borbottò, distogliendo lo sguardo. Era logico.
— Non puoi — convenni. — Se vuoi, credimi.
— Io vorrei — disse lui, sempre fissando il pavimento. — Ma mi ricordo quello che è successo sul tetto. Di notte me lo sogno.
— Non devi più avere paura di quella vampira — gli dissi. — È defunta. Per decreto del Tribunale.
— Lo so.
— Come hai fatto a saperlo? — gli chiesi stupito.
— Mi ha chiamato il vostro comandante. Quello che cambia anche lui corpo.
— Non lo sapevo.
— Una volta mi ha chiamato, quando a casa non c'era nessuno. Mi ha detto che avevano condannato la vampira. Ha detto anche che, in quanto potenziale Altro, anche se ancora non determinato, sono stato cancellato dall'elenco degli umani. E che non sarei mai più stato sorteggiato, e non dovevo più avere nessuna paura.
— Sì, certo — confermai.
— Gli ho chiesto se i miei genitori erano ancora nell'elenco.
E qui rimasi decisamente senza parole. Capivo quale doveva essere stata la risposta del Capo.
— Va bene, vado. — Egor fece un passo indietro. — La sua sigaretta è finita.
Gettai il mozzicone e gli chiesi: — Da dove vieni? È già tardi.
— Dagli allenamenti, faccio nuoto. No, mi dica, è davvero lei?
— Ti ricordi il gioco con la tazza rotta?
Egor sorrise debolmente. I trucchi più facili sono sempre quelli che impressionano di più il pubblico.
— Sì. Ma… — Tacque, guardando dietro di me. Mi voltai.
E strano vedersi dall'esterno. Un ragazzo con la mia faccia, che camminava con la mia andatura e aveva addosso i miei jeans e la mia maglia, con il walkman e in mano una piccola borsa. Anche il sorriso, appena accennato, era il mio. Perfino gli occhi, un finto specchio, erano i miei.
— Ciao, Anton — disse Ol'ga. — Buonasera. Egor.
La presenza del ragazzino evidentemente non l'aveva stupita. In generale sembrava molto tranquilla.
— Buonasera. — Egor guardava un po' lei e un po' me. — Anton adesso è nel suo corpo?
— Esattamente.
— Lei è simpatica. Ma come fa a conoscermi?
— Ti ho visto mentre mi trovavo in un corpo meno simpatico. Ma adesso scusaci, Anton ha dei grossi problemi, e dobbiamo risolverli.
— Devo andarmene? — Egor sembrava aver dimenticato che solo qualche istante prima stava appunto per farlo.
— Sì. E non ti arrabbiare, qui adesso farà caldo, molto caldo.
Il ragazzino guardò me.
— I Guardiani del Giorno mi danno la caccia — gli spiegai. — Tutti gli agenti delle Tenebre di Mosca.
— Perché?
— È una storia lunga. Perciò adesso vai diritto a casa.
Quelle parole suonarono brusche ed Egor, un po' corrucciato, annuì. Detti un'occhiata alla piattaforma: proprio in quel momento arrivava un treno.
— Ma c'è qualcuno che vi difende, vero? — Faceva comunque un po' di fatica a capire a quale corpo rivolgersi per parlare con me. — La vostra Guardia?
— Ci prova — rispose dolcemente Ol'ga. — Adesso vai, per favore. Abbiamo poco tempo, e diventa sempre meno.
— Arrivederci. — Egor si girò e corse verso il treno. Al terzo passo uscì dal confine della zona di occultamento e per poco non lo gettarono a terra.
— Se il ragazzino fosse rimasto, sono sicura che sarebbe venuto dalla nostra parte — disse Ol'ga, seguendolo con lo sguardo. — Bisognerebbe vedere le probabilità per capire perché vi siete incrociati nel metrò.
— Un caso.
— Il caso non esiste. Ah, Anton, un tempo leggevo le linee della realtà con la massima facilità, come un libro aperto.
— Una buona previsione non mi dispiacerebbe.
— Una vera previsione non si può fare su commissione. Va bene, mettiamoci al lavoro. Vuoi riprendere il tuo corpo?
— Sì, proprio qui.
— Come vuoi. — Ol'ga tese le braccia — le mie braccia — e mi prese per le spalle. Era una sensazione assurda, duplice. Anche lei, evidentemente, sentiva qualcosa di analogo, perché ridacchiò: — Come mai poi ti sei fatto incastrare tanto in fretta, Anton? Avevo dei progetti così originali per la serata!
— Non vorrei dover ringraziare il Selvaggio per averli mandati a monte…
Ol'ga si concentrò, smise di sorridere. — Va bene. Lavoriamo.
Ci mettemmo schiena contro schiena e aprimmo le braccia a croce. Strinsi le dita di Ol'ga, le mie dita.
— Restituiscimi ciò che è mio — disse Ol'ga.
— Restituiscimi ciò che è mio — ripetei io.
— Geser, ti restituiamo il tuo dono.
Sussultai rendendomi conto che aveva pronunciato il vero nome del Capo. E che nome!
— Geser, ti restituiamo il tuo dono! — ripeté Ol'ga bruscamente.
— Geser, ti restituiamo il tuo dono!
Ol'ga passò a una lingua molto antica, le cui parole erano dolci e armoniose, e da come le pronunciava pensai che dovesse essere la sua lingua madre. Ma percepii con dolore quanta fatica le costasse quella magia, tutt'altro che difficile, al livello di un mago di secondo grado.
Lo scambio di corpi è come lo scatto di una molla. Le nostre coscienze restavano in un corpo altrui solo grazie all'energia esercitata da Boris Ignat'evič Geser. Bastava rifiutare la forza con cui lui ci investiva e saremmo ritornati nel nostro vecchio corpo. Se uno di noi fosse stato un mago di primo livello non ci sarebbe stato neppure bisogno del contatto fisico, tutto sarebbe potuto avvenire anche a distanza.
La voce di Ol'ga si alzò: era arrivata alla formula conclusiva del rifiuto.
Per un attimo non successe nulla. Poi fui colto da convulsioni, tutto cominciò a fluttuarmi davanti agli occhi e a diventare grigio, come se stessi sprofondando nella penombra. Per un istante vidi tutta la stazione, da cima a fondo, le polverose vetrate colorate, il pavimento sporco, la gente che avanzava lenta, l'arcobaleno delle aure e due corpi che sussultavano, come inchiodati l'uno all'altro.
Poi mi sentii spingere, schiacciare, comprimere in un involucro corporeo.
— A-a-ah — mormorai, cadendo a terra e riuscendo solo all'ultimo momento a ripararmi con le mani. Avevo i muscoli irrigiditi, le orecchie mi fischiavano. Il viaggio di ritorno risultò molto meno confortevole dell'andata, forse perché non era stato il Capo a guidarlo.
— Tutto a posto? — mi chiese Ol'ga con voce debole. — Ohi, che carogna che sei, però!
— Come? — La guardai.
Ol'ga, con una smorfia, si stava alzando: — Potevi, pardon, fare una capatina alla toilette?
— Solo con il permesso di Zavulon.
— Va bene, non parliamone più. Anton, abbiamo ancora un quarto d'ora. Raccontami.
— Che cosa?
— Quello che hai capito. Forza. Non volevi semplicemente tornare nel tuo corpo. Hai elaborato un piano, no?
Annuii, mi raddrizzai, mi sfregai le palme impolverate. Poi le battei sulle ginocchia per sistemare un po' i jeans. Sotto l'ascella la cinghia della fondina mi stringeva troppo, dovevo allargarla un po'. Di gente nella metropolitana non ce n'era più molta, il grosso del fiume di viaggiatori era già defluito. Quelli che si erano attardati, però, ormai liberi dalla preoccupazione di farsi largo tra la folla, adesso avevano il tempo di pensare: si accendevano gli arcobaleni delle aure, e mi giungevano echi di emozioni altrui.