— Mi chiedi troppo, Ališer. Mi chiedi di donarti la morte.
— Sono già morto. Quando hanno risucchiato l'anima di mio padre, io sono morto con lui. Me ne sono andato sorridendo, mentre lui distraeva gli agenti delle Tenebre. Sono sceso nella metropolitana, mentre loro calpestavano la sua cenere. Geser, io lo chiedo di diritto.
Geser annuì. — E sia. Sei nella mia Guardia, Ališer. Sul viso del giovane non si rifletté alcuna emozione. Fece un cenno con il capo e si portò una mano al petto.
— Dov'è quello che portavate con voi, Ališer?
— Qui con me, signore.
Geser allungò in silenzio il braccio attraverso il tavolo.
Ališer sfilò la borsetta che teneva alla cintola. Ne estrasse con molta cura un piccolo involto rettangolare di tela grezza.
— Prendila, Geser, liberami dalla responsabilità.
Il palmo di Geser coprì quello del giovane; le dita si strinsero. Quando un attimo dopo il giovane ritrasse la mano, essa non reggeva più niente.
— Il tuo servizio è terminato, Ališer. Ora semplicemente ci riposeremo. Mangeremo, berremo e ricorderemo tuo padre. Ti racconterò tutto ciò che riuscirò a ricordare.
Ališer annuì. Impossibile capire se le parole di Geser gli avessero fatto piacere o se semplicemente si sottomettesse a qualsiasi suo desiderio.
— Abbiamo mezz'ora — osservò per inciso Geser. — Dopodiché arriveranno gli agenti delle Tenebre. Alla fine ce l'hanno fatta a mettersi sulle tue tracce. Troppo tardi, ma ce l'hanno fatta.
— Ci sarà un combattimento, signore?
— Non lo so. — Geser alzò le spalle. — Cosa cambia? Zavulon è lontano. Gli altri non mi fanno paura.
— Ci sarà un combattimento — disse pensosamente Ališer. Girò lo sguardo intorno alla sala.
— Manda via tutti i clienti — suggerì Geser. — Con dolcezza, senza importunarli. Voglio vedere la tua tecnica. Poi ci rilasseremo e aspetteremo gli ospiti.
Verso le undici la gente cominciò a svegliarsi.
Io mi ero messo ad aspettare sul terrazzo, disinvoltamente allungato su una sdraio, sorseggiando di tanto in tanto un gin tonic da un grosso bicchiere. Mi sentivo bene, provavo la dolce sofferenza del masochista. Quando qualcuno appariva sulla porta, lo salutavo con un amichevole battimani e un piccolo arcobaleno che, staccandosi dalle mie dita distese, saliva verso il cielo. Si erano divertiti tutti come bambini, e ora sorridevano. Julja comparve sbadigliando, e quando vide il mio saluto fece uno strillo e lanciò a sua volta un arcobaleno in risposta. Gareggiammo così per due minuti, poi li unimmo in un solo grande arcobaleno che scompariva nel bosco. Julja mi comunicò che si sarebbe messa alla ricerca della pentola piena d'oro e partì a passo di marcia sotto l'arco variopinto. Uno dei terrier accorse docile ai suoi piedi.
Aspettavo.
Di quelli che stavo aspettando, la prima a uscire fu Lena. Allegra, vigorosa, con indosso solo il costume da bagno. Vedendomi, per un attimo si confuse, ma si riprese subito, fece un cenno di saluto con la testa e si diresse verso il cancello. Era piacevole vederla muoversi: snella, armoniosa, piena di vita. Adesso si sarebbe immersa nell'acqua fresca, se la sarebbe spassata per un po' in solitudine e infine, una volta risvegliatosi l'appetito, sarebbe tornata a fare colazione.
Subito dopo comparve Ignat. In costume da bagno e ciabatte di gomma.
— Ciao, Anton! — urlò allegro. Si avvicinò, aprì la sdraio di fianco alla mia e vi si lasciò cadere sopra. — Come va l'umore?
— Bellicoso! — risposi, sollevando il bicchiere.
— Bravo! — Ignat cercò con lo sguardo la bottiglia senza trovarla, allora protese le labbra verso la cannuccia e con gesto di familiarità prese un sorso direttamente dal mio bicchiere. — Troppo leggero, mescola.
— Ho già fatto il pieno ieri sera.
— Giusto. Allora riguardati — suggerì lui. — Noi invece ieri abbiamo tracannato champagne per tutta la sera. Poi, di notte, siamo passati al cognac. Temevo che mi sarebbe venuto un gran mal di testa, invece no. Mi è andata bene.
Prendersela con lui era addirittura impossibile.
— Ignat, cosa volevi diventare quand'eri bambino? — gli domandai.
— Inserviente d'ospedale.
— Cosa?
— Be', mi era stato detto che i maschietti non fanno le crocerossine, ma io volevo aiutare le persone. Così decisi che da grande avrei fatto l'inserviente.
— Molto bene — dissi ammirato. — Ma perché allora non il dottore?
— La responsabilità è troppo grande — ammise Ignat con franchezza. — E bisogna studiare per troppo tempo.
— E ce l'hai fatta?
— Sì. Sono entrato in una squadra di pronto intervento psichiatrico. Lavorare con me piaceva a tutti i dottori.
— Perché?
— Primo, sono una persona molto affascinante — spiegò lui, elogiandosi con assoluta ingenuità. — Sono capace di parlare tanto con un uomo quanto con una donna in modo tale che subito sì calmino e accettino di farsi ricoverare. Secondo, sono in grado di capire quando una persona è davvero soltanto malata, e quando invece effettivamente vede le cose invisibili. A volte, confabulando con loro, riuscivo a spiegare che era tutto a posto e che non era necessaria alcuna iniezione.
— Una grossa perdita, per la medicina.
— Sì. — Ignat sospirò. — Ma il Capo mi ha convinto che sarei stato più utile nella Guardia. Non è così?
— Certo.
— Sto ricominciando ad annoiarmi — continuò Ignat pensoso. — Tu no? Io ho già voglia di tornare al lavoro.
— Anch'io, direi. Ignat, ce l'hai un hobby? Oltre al lavoro, intendo.
— Perché me lo chiedi? — si stupì lui.
— Per curiosità. O è un segreto?
— Ma quali segreti! — Ignat si strinse nelle spalle. — Colleziono farfalle. Posseggo una delle più belle collezioni del mondo. Occupa due stanze.
— Notevole — concordai.
— Vieni a vederla, quando ti capita — propose Ignat. — Fate un salto, tu e Sveta: mi ha detto che anche a lei piacciono le farfalle.
Risi tanto a lungo da pungerlo sul vivo. Ignat si sollevò, con un sorriso incerto, e borbottò: — Vado a dare una mano per la colazione.
— Buona fortuna — riuscii soltanto a spiccicare. Ma non potei trattenermi e, quando il nostro seduttore giunse alla porta, lo chiamai di nuovo: — Senti, il Capo ha ragione di preoccuparsi per Sveta?
Ignat si toccò il mento con gesto pittoresco. Rifletté. — Sì, lo sai anche tu. In effetti Svetlana è un tipo teso, che non si rilassa assolutamente mai. Per lei sono in vista grandi cose, altro che le nostre.
— Ma almeno ci hai provato?
— Altroché! — si offese Ignat. — Passate a trovarmi, mi farà piacere, parola d'onore!
Il gin era diventato tiepido, il ghiaccio si era sciolto. Sulla cannuccia era rimasta un'impronta leggera di crema per le labbra. Scossi la testa e misi da parte il bicchiere.
Geser, non puoi prevedere tutto.
Ma per darti battaglia senza ricorrere a un duello magico — sarebbe ridicolo persino pensarlo — per darti battaglia sull'unico campo a me accessibile, quello delle parole e delle azioni, devo sapere cosa vuoi. Devo conoscere la disposizione delle carte nel mazzo. E cos'hai in mano.
Chi partecipa al gioco?
Geser è l'organizzatore e l'ispiratore. Ol'ga è la sua amante e consulente, una maga che ha commesso una mancanza. Svetlana è l'esecutrice tanto amorevolmente allevata. Io sono uno degli strumenti per la sua educazione. Di Ignat, Tigrotto, Semën e di tutti gli altri agenti della Luce si può non tenere conto. Anche loro sono strumenti, ma di secondo piano.
Le Forze delle Tenebre?
Vi partecipano, beninteso, ma non in modo manifesto. Sia Zavulon, sia tutti i suoi ausiliari sono turbati dalla comparsa di Svetlana nel nostro schieramento. Ma non possono fare niente in modo diretto. Possono solo tramare le loro porcherie di soppiatto, o preparare un colpo devastante, che conduca le Guardie sull'orlo della guerra.
Che altro?
L'Inquisizione?