Ma lei continuava a piangere, le lacrime le scorrevano a torrenti fra le dita, cadevano sul tavolo; ansava febbrilmente, singhiozzava, continuava a tenere nascosto il viso, e poi cominciava all’improvviso a parlare, e parlava come se pensasse a voce alta, interrompendosi da sola, senza ordine e senza uno scopo.
Lui l’aveva percossa, e come l’aveva percossa! Appena lei sollevava la coda, lui subito le faceva una scenata. Se ne infischiava del fatto che lei fosse una ragazza e che avesse tre anni di meno, lei apparteneva a lui e basta. Lei era una cosa sua, di sua proprietà. Lo era diventata subito, quasi il primo giorno che si erano conosciuti. Lei aveva cinque anni e lui otto. Lui correva con i cerchi e gridava una filastrocca che aveva inventato lui: «Accanto all’uscio gli animali stavano, ululavano, ma via li cacciavano!». Dieci, venti volte di seguito. A lei venne da ridere, e allora lui la vide per la prima volta…
Era stato bellissimo — essere una cosa sua — perché lui la amava. Non amò mai nessun altro. Solo lei. Tutti gli altri gli erano indifferenti. Non capivano nulla e non potevano capire. E lui appariva in scena, cantava canzoni e declamava versi solo per lei. Proprio così. Le diceva: «Questo è per te. Ti è piaciuto?». E saltava in alto, per lei. E di notte scriveva versi, per lei. Aveva una grande stima di lei, della cosa di sua proprietà, e cercava sempre di essere degno di una cosa così preziosa. E nessuno ne sapeva niente. Lui aveva sempre fatto in modo che nessuno se ne accorgesse. Fino all’ultimo anno, quando lo venne a sapere il suo insegnante…
Lui aveva anche molte altre cose sue. Tutto il bosco intorno all’internato era suo. Ogni uccello del bosco, ogni scoiattolo, ogni rana del fossato. Dettava legge ai serpenti, dava inizio e fine alle guerre fra le formiche, sapeva curare i cervi, e tutto era di sua proprietà, eccetto un vecchio alce di nome Rex, che ammetteva come pari, ma poi litigò con lui e lo cacciò via dal bosco…
Sciocca, che sciocca era stata! All’inizio andava tutto bene, ma poi lei crebbe e decise di essere libera. Gli aveva dichiarato in faccia che non desiderava più essere una cosa sua. Lui l’aveva picchiata, ma lei era decisa, ferma nella sua convinzione, maledetta sciocca. Allora lui l’aveva picchiata di nuovo, crudelmente e implacabilmente, così come picchiava i suoi lupi, quando cercavano di prendergli la mano. Ma lei non era un lupo, lei era più ostinata di tutti i suoi lupi presi insieme. E allora lui aveva tirato fuori dalla cintura il coltello, che affilava personalmente su un osso che aveva trovato nel bosco, e con un sorriso folle si era lentamente e terribilmente squarciato il braccio dal polso fino al gomito. Stava davanti a lei con un sorriso folle, il sangue gli colava dal braccio come l’acqua dalla conduttura, e chiedeva: «E ora?». Non fece nemmeno in tempo a cadere, che lei aveva capito che lui aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione, fin dall’inizio. E lei era stata una sciocca, una sciocca, una sciocca, e non aveva voluto ammetterlo…
E l’ultimo anno, quando lei era tornata dalle vacanze, non c’era stato più nulla. Era successo qualcosa. Probabilmente, lo avevano messo sotto controllo. Oppure avevano saputo tutto e, ovviamente, erano inorriditi, gli idioti. Maledetti cretini. Lui guardava attraverso di lei e se ne andava. E non la vedeva più. Lei smise di esistere per lui, così come gli altri. Aveva perso una cosa sua, e aveva accettato la perdita. E quando lui si ricordò di lei, fu tutta un’altra cosa. La vita non era più un bosco misterioso, in cui lui era il padrone, e lei la cosa più preziosa che avesse. Avevano già cominciato a cambiarlo, era ormai quasi un Progressore, si trovava a metà della strada verso un nuovo mondo, dove si tradisce e si soffre. Ed era chiaro che era ben deciso a percorrere questa strada, era un buon alunno, coscienzioso e capace. Lui le scrisse, ma lei non rispose. Lui la chiamò, ma lei non si fece viva. Avrebbe dovuto non scrivere o chiamare, ma venire lui stesso, e picchiarla come ai vecchi tempi, e allora, forse, tutto sarebbe tornato come prima. Ma lui non era più il padrone. Era diventato un uomo come ce ne sono tanti altri, e smise di scriverle…
La sua ultima lettera, scritta come sempre a mano (ammetteva solo le lettere scritte a mano, niente cristalli, né registrazioni magnetiche, solo a mano), la sua ultima lettera era venuta proprio da li, dal Serpente Azzurro. «Accanto all’uscio gli animali stavano, ululavano, ma via li cacciavano.» E non c’era scritto niente altro nella sua ultima lettera…
Diceva tutto in modo febbrile, singhiozzando e soffiandosi il naso negli stracci sgualciti del laboratorio, e io all’improvviso capii, ed un secondo dopo lo disse lei stessa: si erano visti il giorno prima. Proprio mentre le telefonavo e parlavo con il lentigginoso Tojvo e mentre telefonavo a Jadwiga e mentre parlavo con Sua Eccellenza e mentre me ne stavo a casa a leggere il rapporto sull’operazione “Mondo morto”, tutto questo tempo lei era stata con lui, l’aveva guardato, l’aveva ascoltato, e fra loro era avvenuto qualcosa, per cui lei adesso piangeva sulla spalla di uno sconosciuto.
2 giugno dell’anno 78. Maja Glumova ed il giornalista Maksim Kammerer
Lei tacque, come se si riprendesse, e anch’io mi ripresi, solo qualche secondo prima. Del resto, stavo lavorando. Il dovere. Il senso del dovere. Ciascuno è tenuto a fare il suo dovere. Parole stantie, aspre. Dopo tutto quello che mi era toccato ascoltare. Avrei voluto infischiarmene del dovere e fare tutto il possibile per tirar fuori quella donna infelice dal pantano della sua incomprensibile disperazione. Forse, era proprio questo il mio dovere.
Ma sapevo che non era così, che non era così per molte ragioni. Per esempio, perché non so tirar fuori la gente dal pantano della disperazione per il semplice motivo che non so come si fa. Non so nemmeno da che parte si comincia. E perciò più di tutto desideravo ora alzarmi, scusarmi e andarmene. Ma, ovviamente, non potevo farlo, perché dovevo assolutamente sapere dove si erano incontrati e dove si trovava ora lui…
Lei chiese di nuovo all’improvviso:
— Ma lei chi è?
Pose questa domanda in tono secco, e anche i suoi occhi erano freddi e lucenti, quasi febbricitanti.
Fino al mio arrivo se ne era stata là da sola, nonostante che intorno ci fossero tanti suoi colleghi e, con ogni probabilità, anche degli amici. Comunque era rimasta sola, forse qualcuno si era avvicinato e aveva anche cercato di farla parlare, ma poi era rimasta sola, perché nessuno qui sapeva né poteva sapere niente dell’uomo che riempiva il suo animo di una terribile disperazione — di una cocente delusione che la rendeva debole — e di tutto quello che si era accumulato in lei durante quella notte, che voleva esplodere ma non trovava via d’uscita. Ed ecco che ero arrivato io e avevo fatto il nome di Lev Abalkin. Avevo proprio messo il coltello nella piaga. E allora gli argini si erano rotti e per un po’ lei si era sentita sollevata, era riuscita finalmente a gridare, a liberarsi dal dolore; la sua ragione si era liberata, e allora io smisi di essere un guaritore, e diventai quello che ero in realtà, un estraneo incontrato casualmente. E però ora le era chiaro che, in realtà, non potevo essere capitato per caso, perché non esistono casi come questo. Perché non esiste che ci si lasci con l’innamorato venti anni prima, non si sappia per venti anni nulla di lui, non si senta per venti anni il suo nome e poi, dopo venti anni, lo si incontri e si passi la notte con lui, una notte amara e terribile, più amara e terribile di qualsiasi addio, e il mattino dopo, per la prima volta in venti anni, si senta il suo nome da un estraneo, incontrato casualmente…