Mi riprendo con enorme difficoltà e spengo quel maledetto proiettore. Ščekn interrompe a metà una lunga ingiuria, pensata con cura, e come se niente fosse si slancia in avanti. Lo seguo, e nel frattempo ascolto Vanderchuze che ristabilisce l’ordine a bordo:
«Vergogna!… disturbare un gruppo di ricognizione!… Lo allontanerò immediatamente dalla torretta di comando… Lo destituirò… Questo non è un mercato!…».
— Ti diverti? — chiedo piano a Ščekn.
Lui mi getta un’occhiata in tralice, con i suoi occhi sporgenti.
— Intrigante, — gli dico. — Del resto tutti voi Testoni siete degli intriganti e dei litigiosi…
— È bagnato, — risponde a sproposito Sèekn. — È pieno di rane. Non si sa dove passare.
Alle due del pomeriggio il quartier generale diffonde il primo comunicato. C’è stata una catastrofe ecologica, ma la civiltà è perita per un’altra ragione. La popolazione è scomparsa, per così dire, su due piedi, ma non è stata eliminata in guerra e non è nemmeno stata evacuata attraverso il cosmo: la tecnologia non è abbastanza avanzata, e il pianeta non è un cimitero ma piuttosto un mondezzaio. Sparuti gruppi di aborigeni vegetano nelle campagne, coltivano in qualche modo la terra, sono del tutto privi di cultura, se la cavano però benissimo con i fucili a ripetizione. Io e Ščekn deduciamo che la città deve essere assolutamente vuota, anche se nutriamo qualche dubbio.
La strada si allarga, le case e le file di macchine, da entrambi i lati, spariscono completamente nella nebbia, e ora sento davanti a me lo spazio aperto. Ancora alcuni passi e nella nebbia si disegna una massiccia sagoma quadrata. Si tratta di nuovo di un’autoblindo del tutto uguale a quella che è finita sotto il muro crollato; ma questa è stata abbandonata molto tempo fa, è sprofondata sotto il proprio peso e si è come radicata nell’asfalto. I portelli sono spalancati. Due corti cannoni, che non avevano mai mirato minacciosamente contro chi entrava nella piazza, sono tristemente afflosciati, gocciolano di ruggine e pigramente scolano sulla parte frontale inclinata. Passando, spingo automaticamente il portello laterale spalancato, ma è ormai arrugginito per l’eternità.
Non vedo niente davanti a me. La nebbia in questa piazza è particolare, innaturalmente densa, come se qui si fosse fermata per molti anni e in tutti questi anni si fosse rappresa come il latte, e fosse sprofondata sotto il proprio peso.
— Giù! — ordina Ščekn all’improvviso.
Guardo giù, ma non vedo niente. Però mi accorgo all’improvviso di non avere più l’asfalto sotto le suole, ma qualcosa di morbido, elastico, scivoloso, proprio come un folto tappeto bagnato. Mi accoccolo.
— Puoi accendere il tuo proiettore, — ringhia Ščekn.
Ma ormai anche senza proiettore vedo che qui l’asfalto è ovunque ricoperto da una crosta piuttosto spessa e disgustosa, una specie di massa umida pressata, abbondantemente ricoperta di muffa multicolore. Tiro fuori il coltello, sollevo uno strato di questa crosta, dalla massa ammuffita si stacca qualcosa a metà fra un cencio e un frammento di cinturino, ma sotto questo cinturino di un verde opaco fa capolino qualcosa di rotondo (un bottone? una fibbia?), e lentamente si raddrizzano delle specie di molle o di fili di ferro…
— Sono venuti tutti qui… — dice Ščekn in uno strano tono.
Mi rialzo e proseguo, camminando su quello strato morbido e scivoloso. Mi sforzo di tenere a freno l’immaginazione, ma ora non mi riesce. Sono venuti tutti qui, per questa strada, hanno abbandonato le loro inutili macchine e i furgoni, centinaia di migliaia, milioni di persone si sono rovesciate dal viale in questa piazza, aggirando l’autoblindo con le sue mitragliatrici minacciose e inutili, lasciando cadere quel poco che cercavano di portarsi dietro.
Camminavano a stento, a volte cadevano e allora non riuscivano più a rialzarsi, e tutto quello che cadeva veniva calpestato e ricalpestato da milioni di piedi. E chissà perché, mi sembrava che tutto questo dovesse essere accaduto di notte, che questa poltiglia umana dovesse essere illuminata da una fioca luce di morte, e dovesse esserci silenzio, come in sogno…
— Una buca… — dice Ščekn.
Accendo il proiettore. Non c’è nessuna buca. Per quanto il raggio arrivi a illuminare, la piazza è liscia e piatta, costellata dagli innumerevoli fuocherelli opachi della muffa luminescente, e due passi più avanti nereggia un grande rettangolo, all’incirca venti per quaranta, di nudo asfalto. Sembra proprio ritagliato accuratamente in quello scintillante tappeto ammuffito.
— Gradini! — urla disperato Ščekn. — Con dei buchi! È profondo! Non vedo…
Mi sento i brividi per la schiena: non avevo mai sentito parlare Ščekn con una voce così strana. Senza guardare, abbasso la mano e le mie dita si posano sulla grande testa, e sento il tremito nervoso dell’orecchio triangolare. L’impavido Ščekn ha paura. L’impavido Ščekn si stringe alla mia gamba, proprio come i suoi antenati si sono stretti alla gamba dei loro padroni, sentendo al di là della soglia della caverna l’ignoto e il pericolo…
— Non ha fondo… — dice disperato. — Non riesco a capire. C’è sempre il fondo. Sono andati tutti là, ma non c’è il fondo, e nessuno è tornato… Dobbiamo andare là?
Mi accoccolo e lo abbraccio al collo.
— Non vedo nessuna fossa, — dico nella lingua dei Testoni. — Vedo solo un rettangolo liscio di asfalto.
Ščekn respira affannosamente. Tutti i muscoli sono tesi, e si stringe sempre di più a me.
— Non puoi vedere, — dice. — Non puoi. Ci sono quattro scale con i gradini consumati. Luccicano per l’usura. Sono sempre più profonde. E non hanno fine. Non voglio andar là. Non me lo ordinare.
— Amico mio, — gli dico, — cosa ti succede? Come potrei darti degli ordini?
— Non me lo chiedere, — dice. — Non mi chiamare. Non mi invitare.
— Ora ce ne andremo via di qui, — dico.
— Sì. E in fretta!
Dètto il rapporto. Vanderchuze aveva già collegato il mio canale allo Stato Maggiore, e quando ho finito, la spedizione al completo sa già tutto. Comincia un gran baccano. Si fanno ipotesi, si propongono misure. C’è trambusto. Ščekn poco a poco ritorna in sé: strabuzza l’occhio giallo e nello stesso tempo si lecca. Alla fine si intromette Komov. Il baccano cessa. Ci viene ordinato di continuare la ricognizione e noi ubbidiamo.
Aggiriamo il terribile rettangolo, attraversiamo la piazza, sorpassiamo la seconda autoblindo, che chiude il viale dalla parte opposta, e ancora una volta ci troviamo fra due colonne di macchine. Ščekn riprende a correre baldanzosamente in avanti, è di nuovo energico, litigioso e arrogante. Ridacchio fra me e me e penso che, al suo posto, indubbiamente adesso mi tormenterei per l’imbarazzo di quell’attacco di panico, quasi di terrore infantile, che non era riuscito a trattenere là, nella piazza. E invece Ščekn non si tormenta affatto. Sì, è vero, ha avuto paura e non è riuscito a dominarsi, ma non vede in questo niente di vergognoso o imbarazzante. Ora ragiona a voce alta:
— Se ne sono andati tutti sotto terra. Se lì ci fosse un fondo, allora ti assicurerei che ora vivono tutti sotto terra, in profondità, dove non li sente nessuno. Ma lì non c’è un fondo! Non capisco dove possano essere. Non capisco perché non ci sia fondo.
— Cerca di spiegarlo, — gli dico. — È importante.
Ma Ščekn non può spiegarlo.
— È molto strano, — continua. — I pianeti sono rotondi, ragiona, — e pure questo pianeta è rotondo, l’ho visto io, ma in quella piazza non è rotondo per niente. Sembra un piatto. E nel piatto c’è un buco. E questo buco porta da un vuoto, dove ci troviamo noi, dritto in un altro vuoto, dove noi non siamo.
— Ma perché io non l’ho visto questo buco?
— Perché è chiuso. Tu non puoi. L’hanno chiuso perché quelli come te non lo vedessero, e quelli come me lo vedessero…
Poi avverte all’improvviso che c’è di nuovo pericolo. Un pericolo piccolo, comune. Prima non c’era, e ora c’è.