«Per me?» chiese Baley.

«Sarai l’investigatore in carica, Lije.»

«Non ho una qualifica così alta, questore. Sono solo un C-5.»

«E vorresti la C-6, vero?»

La voleva? Baley conosceva i privilegi che comportava la qualifica superiore: un sedile sulla strada celere nell’ora di punta e non solo dalle dieci alle quattro; più ampia possibilità di scelta sul menù della sezione; forse la speranza di un appartamento migliore e un biglietto per il solarium. A Jessie avrebbe fatto comodo.

«La voglio» disse. «Sicuro. Perché non dovrei? Ma che mi succederà se non riuscirò a risolvere il caso?»

«Perché non dovresti risolverlo, Lije?» stornò il questore. «Sei un buon agente. Uno dei migliori che abbiamo.»

«Ci sono almeno sei uomini con la qualifica più alta, nella mia divisione. Perché dovrei essere preferito?»

Baley non lo disse forte, ma le sue parole alludevano al fatto che il questore abbandonava il protocollo solo nei casi di estrema emergenza.

Il questore incrociò le braccia. «Per due ragioni. Prima di tutto tu non sei soltanto un agente, per me, ma anche un amico. Non ho dimenticato che siamo andati a scuola insieme. A volte può sembrare che me ne sia scordato, ma è tutta colpa della qualifica. Io sono questore e tu sai ciò che significa. Ma sono pur sempre tuo amico e questa è una grande occasione per la persona giusta. Voglio che l’abbia tu.»

«E va bene, questa è la numero uno» disse Baley senza calore.

«La seconda è che ho bisogno di un favore. Penso che anche tu ti consideri mio amico…»

«Che specie di favore?»

«Voglio che lavori insieme a uno Spaziale, in questo caso. È una condizione posta dagli Spaziali stessi. Hanno acconsentito a non denunciare l’assassinio; hanno acconsentito a che ci occupassimo noi delle indagini. Ma in cambio vogliono che un loro agente partecipi alle ricerche. Fin dal principio.»

«A quanto pare non si fidano di noi.»

«Devi capire il loro punto di vista. Se la faccen da non viene trattata con il massimo scrupolo, un certo numero di loro si troverà nei guai con i rispettivi governi. Concediamo loro il beneficio del dubbio, Lije. Voglio credere che si comporteranno bene.»

«Sono sicuro che lo faranno, questore. È questo il loro guaio.»

Il questore non colse, ma continuò: «Sei disposto ad accettare la collaborazione di uno Spaziale, Lije?».

«Me lo chiede come un favore?»

«Sì, ti chiedo di accettare l’incarico con tutte le clausole che gli Spaziali hanno preteso.»

«Allora accetterò il collaboratore.»

«Grazie, Lije. Dovrà abitare da te.»

«Oh, adesso non esagera?»

«Mi rendo conto, mi rendo conto, Lije, ma tu hai un appartamento grande. Tre stanze e un solo bambino. Puoi sistemarlo, e poi non ti darà nessun fastidio. Credimi, è necessario.»

«A Jessie non piacerà.»

«Dirai a Jessie» fece il questore, così ansioso che gli occhi sembrarono scavare due fori negli occhiali «che se fai questo per me io tenterò di farti saltare una qualifica, quando tutto sarà finito. Ti promuoverò C-7, Lije, C-7!»

«D’accordo, è un affare.»

Baley fece per alzarsi, vide l’espressione di Enderby e sedette di nuovo.

«C’è dell’altro?»

Lentamente il questore annuì. «Un’altra cosa.»

«E sarebbe?»

«Il nome del tuo collaboratore.»

«Che importanza ha?»

«Gli Spaziali» disse il superiore «hanno sistemi particolari. Il collaboratore che hanno scelto non è… non è…»

Gli occhi di Baley si spalancarono. «Aspetti un minuto!»

«Devi farlo, Lije. Devi farlo. Non c’è altro sistema.»

«E dovrei tenermi in casa un affare come quello?»

«Te lo chiedo come amico.»

«No. No

«Lije, per questa faccenda non mi fido di nessun altro. Devo cantartelo? Dobbiamo cooperare con gli Spaziali. Dobbiamo riuscire, se vogliamo tenere le navi-gabella lontane dalla Terra. Ma non possiamo riuscire con i vecchi metodi, quindi il tuo collaboratore sarà uno dei loro R. Se il caso riesce a risolverlo lui, se si sparge la voce che siamo inefficienti, per noi tutti è la rovina. E intendo noi come Dipartimento, capisci? Quindi ti trovi per le mani un lavoro doppiamente spinoso. Devi lavorare con lui ma accertarti che sia tu a risolvere il caso. Hai capito?»

«Vuol dire che devo collaborare al cento per cento con quell’affare e poi devo tagliargli la gola? Dargli una pacca con una mano e stringere il pugnale con l’altra?»

«Che altro possiamo fare? Non c’è alternativa.»

Lije Baley stette un attimo indeciso. «Non so che cosa dirà Jessie.»

«Le parlerò io, se vuoi.»

«No, questore.» Tirò un profondo respiro. «E ora mi dica il nome del mio collaboratore.»

«R. Daneel Olivaw.»

Baley disse, tristemente: «Non è il momento degli eufemismi; accetto il lavoro, quindi diciamolo per esteso: Robot Daneel Olivaw».

II

Viaggio su una strada celere

Sulla strada celere c’era la solita folla: i passeggeri in piedi sui livelli inferiori e quelli con diritto a sedere sui superiori. Un fiume continuo di umanità abbandonava la strada per abbordare i nastri locali o le uscite che, mediante ponti e arcate, immettevano negl’infiniti labirinti dei settori cittadini. Dalla parte opposta un flusso altrettanto continuo di viaggiatori saliva sulla strada sfruttando i nastri acceleratori.

C’erano luci infinite: pareti luminose, volte che sembravano sgocciolare una fredda fosforescenza, insegne lampeggianti che attiravano l’attenzione, lo splendore crudo e uniforme delle "lucifere" che indicavano: DIREZIONE PER IL JERSEY, SEGUIRE LE FRECCE PER LA NAVETTA DELL’EAST RIVER, LIVELLI SUPERIORI PER I SETTORI DI LONG ISLAND.

Ma soprattutto c’era il rumore che è inseparabile dalla vita: il suono di milioni di persone che parlavano, ridevano, tossivano, si chiamavano l’un l’altra.

Nessuna indicazione per Spacetown, pensò Baley.

Balzava da nastro a nastro con la facilità di chi è abituato da tutta una vita. I bambini imparavano a "saltare sui nastri" non appena erano in grado di camminare. Baley a stento si accorgeva dell’accelerazione, nonostante la velocità aumentasse a ogni passo. Né si rendeva conto di stare leggermente piegato in avanti, contro la spinta. In trenta secondi raggiunse l’ultimo nastro, quello dei cento all’ora, e poté trasbordare sulla piattaforma mobile, protetta da un tunnel di vetro, che era la strada celere.

"Nessuna indicazione per Spacetown" pensò.

Non c’era bisogno di indicazioni. Se si aveva un affare laggiù si conosceva la strada, e se non la si conosceva, voleva dire che era inutile andarci. Quando la città degli Spaziali era stata costruita, venticinque anni prima, c’era stata la moda di considerarla una specie d’attrazione. Le orde di New York non facevano che riversarsi in quella direzione.

Poi gli Spaziali avevano detto basta. Educatamente (erano sempre educati) ma senza alcun compromesso con il tatto, avevano alzato una barriera di energia fra sé e la Città di New York. Avevano istituito una combinazione fra il Servizio Immigrazione e la Dogana che controllava tutti i visitatori: se si aveva un affare specifico da sbrigare ci si qualificava, si acconsentiva ad essere perquisiti e ci si sottometteva alla visita medica e alla disinfezione di routine.

La cosa non poteva non creare scontento. È naturale. Più scontento di quanto meritasse, e sufficiente a mettere in discussione il programma di modernizzazione. Baley ricordò i cosiddetti Disordini della Barriera; lui stesso aveva fatto parte della folla che si era lasciata penzolare dai guard-rail delle strade celeri, che aveva occupato i posti a sedere dei livelli superiori senza rispetto per le precedenze di qualifica, che aveva saltato senza freno sui nastri locali, a rischio di rompersi le ossa, pur di rimanere nei dintorni della città spaziale per due giorni e gridare slogan contro la barriera. Poi, per pura frustrazione, la gente aveva cominciato a distruggere oggetti e proprietà cittadine.


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