L’uomo e il robot aspettarono: l’uomo strigendo nervosamente i pugni, il robot impassibile.

Jessie si frugò nella borsa per tirar fuori l’attrezzatura necessaria. (Se c’era una cosa che aveva resistito a tutte le innovazioni tecniche dai tempi del medioevo, era la borsa delle donne. Una volta Baley l’aveva dichiarato in tutta solennità; non si era riusciti nemmeno a sostituire i bottoncini metallici della chiusura con più appropriate cerniere magnetiche.) Jessie prese uno specchietto e l’astuccio dei cosmetici placcato d’argento che Baley le aveva regalato tre compleanni prima.

L’astuccio aveva diversi orifizi, che Jessie usò a turno. Tutti gli spray meno l’ultimo erano invisibili e lei li adoperò con quella finezza e quella delicatezza di tocco che sembrano proprie delle donne per diritto di nascita, anche nei momenti più critici.

Il fondotinta formò un liscio strato regolare che cancellò ogni traccia di pallore e di rughe, sostituendoli con una lieve sfumatura dorata che le donava moltissimo e che si accordava con il colore naturale degli occhi e dei capelli. Seguì un tocco d’abbronzante sulla fronte e sul mento, una lieve spruzzata rosa sulle guance, che sottolineava la linea della mascella, e un delicato tocco d’azzurro sulle palpebre e i lobi delle orecchie. Infine Jessie si applicò un morbido carminio alle labbra. Era l’unico spray visibile della collezione: formava una nebbiolina rossa nell’aria che si seccava repidamente a contatto delle labbra.

«Fatto» disse Jessie, ravviandosi i capelli più volte e dandosi uno sguardo di soddisfazione. «Ora può andare.»

Il processo aveva richiesto più di un secondo, ma meno di quindici. A Baley era sembrato interminabile.

«Andiamo» disse.

Jessie ebbe appena il tempo di rimettere l’astuccio nella borsa che il marito la spinse fuori.

Il silenzio spettrale dell’autostrada premeva da tutte le parti.

Baley disse: «Avanti, Jessie».

La passività che si era impadronita di lei dopo essere usciti dalla centrale cominciava a sgretolarsi. Alzò gli occhi sul marito e su Daneel, muta ma implorante.

Baley disse: «Avanti, per piacere, finiamola. Hai commesso un reato? Un vero reato?»

«Reato?» Jessie scosse la testa incerta.

«Cerca di controllarti, niente scene isteriche. Di’ semplicemente sì o no.» Esitò un momento, poi: «Hai… ucciso qualcuno?»

L’espressione di Jessie cambiò subito in indignazione. «Oh, Lije Baley!»

«Sì o no, Jessie.»

«No, certo che no.»

Il nodo che stringeva lo stomaco di Baley si allentò sensibilmente. «Hai rubato qualcosa? Falsificato i dati delle razioni? Distrutto qualche proprietà? Parla, Jessie.»

«Non ho fatto nente di così specifico. Non alludevo a quel genere di reati.» Guardò oltre la spalla di lui. «Lije, dobbiamo restare in questo posto?»

«Finché non abbiamo finito, sì. Ora comincia dal principio. Che cosa sei venuta a dirci?» Oltre la testa chinata di sua moglie, Baley incrociò gli occhi di R. Daneel.

Jessie rispose a bassa voce, ma man mano che continuava si infervorò e parlò più forte e chiaro:

«Si tratta dei medievalisti… sai chi intendo, Lije. Li trovi dappertutto, non fanno che chiacchierare. E ai vecchi tempi, quando ero assistente dietologa, la situazione era la stessa. Ti ricordi Elizabeth Thornbowe? Una medievalista. Diceva sempre che la fonte di tutti i guai era la Città e che le cose andavano molto meglio prima delle Città.

«Spesso le domandavo come facesse ad essere così sicura, e dopo che ebbi conosciuto te, Lije, mi feci ancora più incalzante: ricordi?, a volte ne parlavamo. Lei rispondeva citando i filmuscoli che i medievalisti si portano dietro in tutte le occasioni, come ad esempio La vergogna delle Città scritto da quel tale di cui non ricordo il nome…»

Baley disse, distratto: «Ogrinsky».

«Sì, solo che la maggior parte erano anche più feroci. Poi, quando ci sposammo, cominciai a fare dell’ironia su tutte quelle chiacchiere. La Thornbowe sentenziò: "Immagino che diventerai una cittadina modello, ora che hai sposato un poliziotto". Dopodiché mi rivolse raramente la parola, e alla fine io lasciai il lavoro. Molte delle cose che mi diceva servivano solo a impressionarmi, credo, o a dare a lei un’aria di mistero e d’importanza; era una vecchia zitella e morì senza prendere marito. Ricordi quello che mi dicesti una volta, Lije? Che ogni tanto la gente confonde i propri problemi con quelli della società e pretende di risanare le Città perché non sa come sanare se stessa.»

Baley ricordava, ma quelle parole suonavano vuote e superficiali alle sue stesse orecchie. Disse, dolcemente: «Cerca di venire al punto, Jessie».

Lei continuò: «Comunque, Lizzie profetizzava che il giorno della riscossa sarebbe arrivato e che la gente doveva lottare unita. Diceva che i nostri mali venivano dagli Spaziali, che avevano tutto l’interesse a mantenere la Terra debole e decadente. Era uno dei suoi aggettivi preferiti, "decadente". Guardava il menù che avevo preparato per la settimana successiva e storceva il naso: "Decadente, decadente". Jane Myers, in cucina, le rifaceva il verso e morivamo dal ridere. Elizabeth diceva che un giorno avremmo distrutto le città, saremmo tornati alla terra e avremmo regolato i conti con gli Spaziali, che cercavano di incatenarci alle Città mediante l’imposizione dei robot. Per la verità Elizabeth non li chiamava robot, ma "macchine-mostro senz’anima". Scusa l’espressione, Daneel.»

L’automa disse: «Non conosco il significato delle ultime due o tre parole, Jessie, ma in ogni caso ti scuso. Continua, per favore».

Baley si agitò sul sedile, inquieto. Era sempre stata così, Jessie: nessuna emergenza, nessuna crisi potevano indurla a raccontare una storia in modo meno prolisso.

Lei riprese: «Elizabeth parlava sempre come se i suoi compagni fossero molti e numerosi. Diceva ad esempio: "All’ultima riunione collegiale", eccetera, dandomi un’occhiata per metà speranzosa e per metà impaurita. Speranzosa, perché voleva che le facessi delle domande e la facessi sentire importante; impaurita perché temeva che la mettessi nei guai. Ma io non chiedevo mai niente. Non volevo darle la soddisfazione.

«Poi ci sposammo, Lije, e per un poco tutto finì. Ma poi…»

Si fermò.

«Continua, Jessie» disse Baley.

«Ricordi, Lije, la litigata che facemmo a proposito del mio nome? Jezebel, voglio dire…»

«E allora?» C’erano voluti un secondo o due perché Baley ricordasse che era il nome completo di sua moglie. Si voltò verso R. Daneel e spiegò, stando automaticamente sulla difensiva: «Jessie è il diminutivo di Jezebel, ma a lei non piace parlarne».

R. Daneel annuì tutto compreso e Baley pensò: "Perdinci, perché mi metto a dire queste cose a lui?".

«Fu una cosa che mi ferì molto, Lije» continuò Jessie. «Molto. Era un stupidaggine, in fondo, ma io continuavo a rimurginare sulle tue parole. Voglio dire, la teoria secondo cui Jezebel era solo una conservatrice che si batteva per difendere i costumi dei suoi antenati contro quelli introdotti dagli stranieri. Dopotutto io ero Jezebel, e mi ero sempre…»

Cercò una parola che non riuscì a trovare. Baley disse: «Identificata con lei?».

«Sì.» Poi scosse la testa e guardò da un’altra parte. «Non razionalmente, si capisce. Non alla lettera. Ma me l’immaginavo in un certo modo, capisci, e volevo essere come lei. Anche se poi non lo ero affatto.»

«Lo so, Jessie, non essere sciocca.»

«Pensavo a lei continuamente e un giorno mi dissi: oggi succede la stessa cosa; noi della Terra avevamo i nostri costumi e poi sono arrivati gli Spaziali con le loro novità e hanno cercato di imporcele. Forse, ragionai, i medievalisti hanno ragione. Forse dovremmo tornare ai vecchi tempi. Così mi misi in cerca di Elizabeth e la trovai.»

«Sì. Continua.»

«Dapprima Lizzie disse che non capiva di che stessi parlando e poi, ero la moglie di un poliziotto. Io le assicurai che tu non c’entravi per niente, che ero lì per ragioni mie. Elizabeth mi promise che avrebbe parlato di me ai compagni e dopo circa un mese mi fece sapere che ero ammessa. Da allora in poi ho partecipato a tutte le riunioni.»


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